mercoledì 3 aprile 2013

A cosa puoi rinunciare?

Ogni giorno, per lavoro, mi scontro con le statistiche dell'Istat. In particolare, mi colpiscono quelle legate al mercato del lavoro. Con il tempo mi sono appassionata alle tematiche lavorative, all'economia del lavoro, alle dinamiche di domanda e offerta.
 
Il mio pensiero va spesso a mio papà che per una vita (breve) ha lottato per tenersi un posto di lavoro che ci permettesse di sopravvivere. Cambiando pelle, mansione, competenze in un anticipo vertiginoso di quel vortice che avrebbe travolto tutti noi qualche anno dopo. Mi ricordo ancora i corsi di inglese... che fatica, mio papà era portato per altre cose, ma di sicuro non per le lingue.
 
Stamattina, sul tram, mi sono fermata in corrispondenza di un altro tram. Il guidatore, un ragazzo giovane (e carino ;-). Mi è venuto spontaneo pensare: - Fortunato - ma ho iniziato a divagare sul perché ho pensato questo. E se fosse un filosofo medievalista prestato all'Atm?
E se fosse un fine latinista senza la passione della guida? E se..
 
Con tutti i miei "e se" sono arrivata in Duomo, ma la riflessione non mi ha abbandonata.
 
Leggendo i numeri sulla disoccupazione che, in media ogni mese, vengono pubblicati, viene da chiedersi se abbia senso fare una statistica dei disoccupati o non sarebbe meno devastante, per chi legge, farla censendo gli occupati.
 
La sopravvivenza è quindi il primo obiettivo. Per sopravvivere uno fa di tutto, oggi.
Ma sopravvivere non è vivere. E tempi, tecnologia, tariffe, vita quotidiana hanno dilatato molto il concetto di sopravvivenza. Un esempio stupido, per venire al lavoro spendo ogni mese 97,5 euro. Quando ho iniziato a Milano erano 70,5 (ho il pallino delle statistiche lo ammetto).
Quando vivevo a Borgo, per venire in auto a Mortara spendevo 5 euro a settimana.
Oggi con 5 euro manco ai moscerini assetati dai da bere.
Con un ticket da 5,2 euro pranzavo. Oggi mi porto il pranzo, nemmeno con 7 euro riesco a mettere insieme un piatto acqua e caffè in questa zona periferica.
Sono considerazioni lontane dai grandi numeri, ma le statistiche sono fatte di piccoli numeri. Questi sono i miei.
 
Oltre alle proprie aspirazioni, uno a cosa è disposto a rinunciare?
Io a cosa sono disposta a rinunciare? Mi chiedo cosa rientri nella sopravvivenza, oltre a casa e cibo e qualche straccio, in modo da definire quale sia la mia visione dell'indispensabile esistenziale.
Non è il pensiero "radical chic" di un certo tipo di sinistra, che gira con il saio di cachemire, per dire, predicando una novella frugalità in tema con la moda "crisi" e "nuovo Papa". Riflettevo solo sul concetto di indispensabile. Mi rendo conto di non aver vissuto gli anni del grande consumismo, venendo da famiglia molto modesta. Ma la percezione di questo mondo da bere ce l'ho avuta, frequentando il resto del mondo. E, improvvisamente, quello che sento è una sorta di aridità che mi circonda, un sottile strato di miseria che aleggia per le strade, un senso di freddo e di vuoto. Questa è la sensazione della povertà come nel romanzo di Marquez, dove la diceria gira di notte nelle strade buie, mentre tutte le porta sono sprangate?
Sentendo questo inaridimento mi viene spontaneo "rimettermi in riga" e cercare di individuare il (troppo) superfluo. La rinuncia che più mi pesa è alla cultura, intesa come libri e spettacoli, e ai viaggi. Del viaggio ho bisogno come di una boccata d'aria, per uscire dalla strettissima routine quotidiana, fatta di lavoro, treno, casa, lavoro, lavoro, lavoro. Per non fare le stesse strade, per non vedere le stesse persone per.. lo confesso, prendere una pausa dalla mia vita. Del resto ne ho bisogno come del cibo. Come potrei fare due ore di viaggio in treno senza leggere?
Sarei già morta di noia. La prima morta per noia italiana senza l'ausilio degli stupefacenti.
 
E voi? A cosa di inutile non potete rinunciare?
 
 
 














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