E il gran giorno giunse, inesorabile.
Quello in cui, panza in spalla, il nostro grande uomo doveva vedere la fine del suo grandioso progetto, frutto della sua faronica ambizione (o più prosaicamente l'unico sistema con cui riacciuffare per il rotto della cuffia una qualche piccola forma di importanza in una organizzazione che ha messo il suo grande talento sotto il tappeto) e senza risparmio relativamente all'utilizzo strumentale dei propri collaboratori.
Il parto ha avuto una lunga e sofferta gestazione: le ultime grida di dolore si sono levate al cielo per la produzione della prima rivista, attraverso un terrificante numero di prova, il cosiddetto numero zero. Zero come zero informazione, dato che non si sapeva di doverlo fare, zero come organizzazione, dato che non erano funzionanti nemmeno le maschere della pagine e zero come comunicazione tra le varie parti interessate.
La luce brillava minacciosa alle 8 di lunedì nel famigerato ufficio, evento che faceva presagire una giornata campale.
Ben presto il nostro Napoleone si è presentato direttamente sul campo di battaglia, abbandonando le retrovie. La porta si apre di scatto nel silenzio tombale, interrotto solo dal ticchettare della dita sulla tastiera. Entra fingendo di essere trafelato, prima la pancia, poi tutto il resto.
Probabilmente Napoleone (quello vero) prima di Waterloo ha riservato meticolose cure al suo aspetto.
Non è questo il caso: capello lungo e trasandato, di un grigio quasi totale. Camicia bianca grande come il mio lenzuolo, con quei poveri, piccoli bottoncini innocenti che soffrono senza sosta, straziati come fossero nella ruota. Scarpetta ortopedica e jeans acqua in casa.
Immediatamente si piazza a una scrivania libera. Si vede che non se la sente di affrontare un momento così importante da solo. Così pensa che disturbare tutti sia la soluzione migliore.
Quando Danilo entra in ufficio si gela all'istante, vedendo questo nuovo inquilino rumorosamente assiso su una sedia prima non cigolante, che riesce a pestare sui tasti più forte che mai, più forte degli altri quattro.
Cerca di attaccare bottone con scemenze, con il commento di Dagospia, ma viene zittito da un silenzio da acquario. Le ore passano, i fogli della prove vengono sparsi sulle scrivanie vuote (ahimè ce ne sono troppe), la minima e la gestualità si intensifica. Accaldato, rosso e scarmigliato come Vulcano nella sua fucina, il nostro schiuma, e pesta, e pontifica. Le parole volteggiano come turaccioli, zompano in aria leggere e ricadono avvilite, una volta che l'elio che le compone è svanito.
Chi era Beethoven, chi Wagner al confronto.
Diciamo che noi abbiamo sparato mortaretti, mentre gli altri hanno vinto i campionati universali di fuochi d'artificio.
L'ansia febbrile, il tremolio della mani (un inizio di Parkinson?) il respiro pesante (è grasso, è grasso come vuote le sue idee) lo sguardo lucido e teso ricalcano i gesti dei grandi artisti, degli istrioni di ogni tempo e ogni luogo.
Ma noi abbiamo davanti il nostro giornaletto, che nella sua nuova edizione è ancora più scarno, editato con tono paternalistico e sciocco, banale nella sua veste scalcinata che non sta insieme, cupo nei colori, triste nelle due foto dei primi malcapitati che sono stati sbattuti in prima pagina. Un lui Danilo, che sembra un ragazzo serio, e una lei, io che sembra una ragazzotta di campagna (l'aria di ipnotica seduttrice romantica mi sa che ce la scordiamo).
Tacchino e faraona, insomma, due pollastroni in abito e tailleur.
Il sole declina, gli inciampi si moltiplicano, Alberto, dando prova di sublime rassegnazione, rincorre ogni idiozia editoriale, ogni disastro, attraverso il metodo mimo. Uno al telefono ti spiega e tu immaginando la pagina spieghi, a tua volta come doveva venire.
Un miraggio insomma. Tra grafici isterici, e un inizio di martirio per tutti si arriva alla fine. Quasi: all'ultimo secondo, in zona cesarini, con l'arbitro che ha già il fischietto in bocca si scopre che... hanno sbagliato il mio cognome, che è diventato Migliore.
Uno svarione, un programma.
La giornata eterna finisce, lasciando spossati i fanti in campo. Uscendo ci si accorge che il generale è sparito da un pezzo... W la Repubblica, signori.
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