lunedì 9 dicembre 2013

Del perchè Zingaretti finisce sempre a far la parte del poliziotto e La torre d'avorio

Cos'è che fa di Zingaretti, prima ancora del suo piglio recitativo, un poliziotto/militare et similia?
 
Me lo sono chiesta insistentemente ieri, mentre lo vedevo coraggiosamente inseguire la sua parte scenica: quella di un militare americano particolarmente rozzo, incolto e brutale nella Berlino da poco liberata dai nazisti.
 
E voi immaginatevi il nostro uomo, una persona prestante, dalla fisicità intensa, dallo sguardo drammatico e ardente, che ispira risolutezza da tutti i pori.
Ma non rozzezza.
 
Si è impegnato al massimo delle sue possibilità.
 
Ma è duro, durissimo tentare di impersonare un rozzo americano.
Che è mediamente inarrivabile per un europeo, sia pur ignorante.
Talmente rozzo che le sue battute potevano solo far intuire, ma la sua persona, beh, non ci arrivava proprio. Per quanto strillasse, si dimenasse, si agitasse, infilasse parolacce ecco, non era un americano rozzo, era la versione di un italiano semi-rozzo.
 
La fisicità non lo aiuta.
Zingaretti si muove bene, ha un profilo aggraziato, uno sguardo di acuta intelligenza che posso intuire anche dal mio posto arretrato.
Ispira forza, ma non violenza, non brutalità.
Insomma, il commissario gli riesce meglio.
 
E qui invece abbiamo un personaggio difficile, primordiale non tanto nella sua ignoranza crassa, quanto nella cieca convinzione che esista una parte assolutamente giusta e una assolutamente sbagliata. Che l'una debba combattere e vincere l'altra, che il male, perché di questo si tratta parlando di una guerra, della parte "buona" sia giusto, mentre quello della parte cattiva sia sbagliato.
 
La verità, invece, non esiste: la vittoria un caso o frutto del fato.
E se la storia la scrive chi vince, sulle macerie di una città distrutta si scontrano il desiderio di vendetta a tutti i costi contro il passato regime nazista, animato dalle atrocità senza senso della guerra, e il potere liberatorio e salvifico della musica.
 
L'arte può essere una forma di resistenza a un regime o è sempre necessariamente schierata e le è impossibile essere libera e parlare solo alla coscienze?
L'arte è incorruttibile oppure è corrotta in quanto espressione del genere umano e non può essere super partes?
 
La musica libera o avvince e plagia?
 
Infine, qual è il dovere di un personaggio pubblico: schierarsi, sacrificarsi, scappare o condurre quello che è un tentativo di sopravvivere ai tempi bui confortando e facendo del bene come si può (in Italia, tirare a campare)?
 
Queste e molte altre domande sono contenute ne La torre d'Avorio.
Ed è uno spettacolo denso, intenso, difficile, dato che non offre soluzioni, ma solo interrogativi.
Nessuna soluzione, perché non ce n'è alcuna.
 
Nella guerra, non ci sono buoni e cattivi, ci sono vincitori e vinti.
E su tutti, un oceano sconfinato di dolore che nulla, neppure il tempo e la ricerca spasmodica del perdono, sotto forma di dimenticanza o di resurrezione, potrà cancellare.
 
L'incomunicabilità di due mondi diversi, la mancata comprensione di cosa significhi essere nell'inferno di un regime comportano che tutti i personaggi parlino, in sintesi, al muro.
Parlano, si ascoltano ma non si capiscono.
 
Le ragioni del cuore non trovano spazio in quest'opera teatrale complessa che alterna ritmi serrati ad altri forse troppo lenti.
 
Solo la musica, con il suo potere, cerca di insinuare un briciolo di umanità in tutte le anime travagliate.
Forse inutilmente.
 
 
 
 
 
 
 

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