Devo capitolare, infine.
Ti penso, non faccio altro che pensarti, mattina, pomeriggio, sera e notte.
E ti sogno pure, talvolta.
Contemplo la tua bella faccia in versione bidimensionale, interrompendomi di continuo, ridicolmente infatuata, persa in adolescenziali supposizioni.
Sarebbe questo l'amore, questo insieme di sdolcinati aneliti?
Sono innamorata di te?
Non credo proprio, perchè io non ti conosco.
Sei un bel contenitore per le mie esigenze, un giusto collocamento per i miei sogni, un'immagine confortante nei momenti di noia, un comodo passatempo, un bel fantoccio a cui attribuire tutte le virtù, un bambolotto virtuale da vestire di ogni attitudine, un personaggio da scrivere e riscrivere a ogni piè sospinto.
La malattia di Petrarca, insomma, mi ha colta nel suo più subdolo sintomo, quello che fa di me una sospirante sognatrice che si avvia alla mezza età.
Volere, non volere, cercare, sognare.
Ma c'è un limite al sogno, quello dell'esigenza vera.
Questo sogno, però, ha tutte le componenti della paura.
Paura, soprattutto, che il sogno assuma componenti tangibili e che dalla sublime leggerezza del fantasma che posso evocare ed esorcizzare a piacimento mi trovi a fare i conti con una responsabile presenza continua, paradisiaca e infernale insieme.
Saprà la nostra eroina smettere di fare comportarsi come cavallo pazzo e accettare le responsabilità della presenza guidata da un maturo coraggio?
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