Ammaccata dai recenti sberleffi altrui, prosciugata da mesi di sofferenze lavorative, mi sono sentita come intossicata dalla fretta, dal nulla, dalla gente inutile.
L'unico modo per tornare a respirare è quello di dedicarsi del tempo, al riparo dalla banalità del quotidiano.
E' un caldissimo martedì di fine luglio, a Milano.
Approdo determinata e leggera in Piazza Duomo.
I turisti sono tutto sommato pochi, pochissimi e affranti dal calore umido feroce, sopportabile solo dagli autoctoni. Nella piazza assolata mi concedo una bella Coca Light (per la cronaca, non ne bevo da due giorni).
Mi dirigo verso il museo del Novecento, dove punto diretta all'esposizione gratuita di alcune riproduzioni di Warhol. Nell'androne semideserto, mi muovo a passi felpati. Nessuno intorno a me, tranne qualche sparuto turista. E così posso apprezzare il vuoto, il bianco e la distanza intorno a me.
Senza parlare, con un tempo intorno che scorre quasi liquido, mi godo questo museo, la cui parte migliore resta senza dubbio la struttura architettonica.
Girello, ritorno sui miei passi, nel pomeriggio deserto.
Fuori il Duomo, di un candore quasi bruciante sotto il sole cocente.
Lo osservo attraverso le vetrate, e mi avvicino all'uscita.
Improvvisamente un colpo di testa: Modigliani. A passi veloci mi dirigo verso Palazzo Reale e mi dico, o adesso o mai più.
Noto, all'ingresso, soprattutto l'assenza dei vari questuanti. Il caldo deve aver spazzato via anche loro.
Anche qui c'è pochissima gente, sono sola a salire lo scalone, sola a fare il biglietto.
Passo tutto il tempo che voglio, tutto quello che posso, dopo essermi tolta l'orologio.
Mi siedo nelle stanze vuote, solo io e i ritratti di Modì, solo io che mi perdo nei loro occhi vuoti, scivolo nei misteri dell'inconscio. Posso vedermi con gli occhi della mente, seduta al centro della stanza vuota, il mio profilo si staglia nel bianco della stanza, acquisisce forma nella penombra. Sento gli sguardi diretti dei quadri intorno a me.
Mi alzo e cammino in tondo, leggo le didascalie con calma e senza interruzioni.
Mi soffermo su quello che mi colpisce, e anche su quello che non conosco.
Prima di uscire mi siedo ancora una volta.
E fissando il vuoto degli occhi delle modelle capisco che ho bisogno di calma, di vuoto, e, in particolare, di ordinato orgoglio.
Nel caldo torrido, sotto i raggi implacabili del sole risplende, ritagliato, in un angolo di cielo blu infinito, il campanile della chiesa dietro il Duomo. Un francobollo, che si staglia abbagliante, bianco e rosso nell'azzurro.
Il cortile vuoto, l'aria sospesa che circonda i miei passi. Alzo il capo, mi fermo, e so che potrei fare qualunque cosa, qualunque, ora, in questa solitudine estrema.
Ma quest'aria limpida e immobile, questo pezzo di cielo, questo silenzio assoluto, mi fanno pensare all'esigenza di essere amati. Assolutamente amati, senza spiegazioni, senza condizioni, senza ansie.
In questo momento perfetto anche il mio desiderio è limpido e tranquillo, pulito e reale, costante e mi accompagna per giorni.
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