Eccolo qui, è arrivato il secondo, tragico, giorno di lavoro.
Il suono della sveglia è arrivato alle mie orecchie con la delicatezza di una fucilata.
Mi ha riportata alla realtà alle 6 di stamattina e mi pareva di aver appena chiuso gli occhi sul primo giorno di lavoro.
Se il primo ha il sapore del ritorno, del ritrovarsi, del racconto, della tintarella, della novità che spezza l'assenza, il secondo ha tutto il peso del giogo eterno del lavoro.
Intorpidita dal sonno, mi sono alzata con fatica, ancora stanca dal giorno prima.
Di energie, nessuna traccia.
Ho ringraziato il fatto di potermi mettere tre cose addosso in questo scorcio di fine estate invece che venti capi sovrapposti come in inverno.
Con fatica mi sono trascinata davanti alla mia solita, triste colazione. Caffè lungo senza zucchero e due fette biscottate finto integrale con marmellata simil mirtillo. Una colazione veloce e trangugiata di malavoglia, con la certezza di aver fame dopo poco.
E fuori, i primi presagi di settembre, nell'aria umida che lascia la sua traccia sulle auto, nella luce obliqua dell'alba sorta in ritardo, più fioca, più lieve.
Lontani sono ormai gli splendori estivi.
In due giorni ho già recuperato le brutte abitudini, tra cui, per prima, quella di truccarmi in treno (sic!in qualche maniera).
Come un pugile suonato mi dirigo verso la stazione. Mi risveglio ferma a uno stop, rendendomi conto di guidare distrattamente. In giro, nel centro impoverito di negozi, in cui, quelli ancora aperti, sono in ferie, non c'è quasi nessuno. Solo uno stormo di piccioni si leva in volo al mio passaggio.
Cerco di scuotermi. Dopotutto sono al volante di un'auto.
Parcheggio in stazione, anche qui nessuno.
Il treno vuoto proprio non riesco a godermelo, anche se so che in un futuro nemmeno lontano non sarà così piacevole e silenzioso il viaggio.
Eccomi, come sempre a Milano.
Nel piazzale della stazione vengo accolta da poche persone.
Perfino gli ambulanti sono in ferie. Una luce pallida e un'arietta tiepida mi avvolgono, facendomi rabbrividire. Un caffè offerto, una strada calma verso il lavoro non riescono a squarciare la coltre di apatia che mi pervade.
28 agosto 7 e trenta, vorrei essere a casa a dormire sotto il mio bel lenzuolino nel mio pigiamino.
28 agosto 12 e trenta. Sono ancora imbambolata e imbronciata di fronte alla fatica che mi costa ogni lavoro. Eppure lavoro, convinta che il miglior modo per far passare il tempo sia quello di impiegarlo.
Ma sono distante, come se tra me e la realtà ci fosse un vetro, come se esistessi fisicamente in un posto dove non sono mentalmente. In un non-luogo, tra l'estate che scivola nell'autunno più delicato. Nella calma dorata che precede l'opulenza dell'autunno pieno, questo è il momento in cui, completamente, tendo alla fuga e alla pigrizia. Il momento in cui mi sento più vicina alla passione e all'abbandono, finita la frenesia delle vacanze e delle scoperte e dei viaggi, prima della frenesia del lavoro.
Oggi è il giorno della stasi malinconica e fatale, il giorno dell'attesa.
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