Deve essere stato in una giornata come questa, ho pensato, che è scoppiata la bomba.
Una giornata in cui, in questa città a 900 km da Tokyo, l'aria era già liquida di prima mattina.
Una mattina di agosto caldissima, come questa, in cui l'afa è già opprimente, l'umidità confonde le cose e rende i contorni degli oggetti già sfumati a una breve distanza.
Della mia esperienza giapponese Hiroshima è stata quella che più mi ha colpito, vuoi perché l'ignoranza occidentale rende "tutti simili" i templi religiosi, vuoi perché la cerimonia relativa all'anniversario del lancio della bomba viene trasmessa anche in occidente.
Hiroshima è oggi una città estremamente vitale, di cui mi ha colpito la vivacità degli abitanti (che funzioni anche qui come in Italia? Più vai verso Sud e più le persone diventano espansive?), la scelta di divertimenti.
Perché Hiroshima?
Perché era un centro importante, alla confluenza di più fiumi, di carattere amministrativo, una città dive venivano ricoverati e addestrati i militari, una base importante, in cui, stranamente, non erano ricoverati prigionieri di guerra e che non era ancora stata bombardata. L'importanza strategica per il Giappone di questa città viene ben spiegato nella prima parte del museo della Pace. Sono raccolte foto, immagini e "reperti" dell'epoca.
Nel museo viene data una spiegazione alla giapponese della tragedia che non tocca minimamente il nocciolo del problema. Anche l'impero del Sol Levante (tutt'ora un impero) era afflitto dal morbo dell'imperialismo a spese dei Paesi circostanti. Andrebbe, per esempio, sentita le versione cinese dei fatti, una ferita ancora aperta che rende difficili le relazioni tra i Paesi ancor oggi.
Impegnato a espandersi il Giappone aveva coltivato la versione asiatica delle ambizioni di Hitler e, con la grande meticolosità giapponese, l'aveva messa in pratica.
La bomba, il cui lancio è stato preceduto da giorni e giorni di lanci di bombe "zucca" di prova è stato il penultimo atto di una guerra che doveva finire a tutti i costi. Durata più di 5 anni, con milioni di morti, doveva concludersi "a tutti i costi", se i miei ricordi di guerra non sono sbagliati.
Eppure, visitare il museo ti fa toccare con mano cosa sia, nella pratica, l'affermazione che vuole che la Storia sia sempre scritta dai vincitori. Esiste anche una storia dei vinti, e questo museo ne parla, a noi che abbiamo studiato solo la storia degli americani, con buona pace dei miei parenti socialistissimissimissimi.
Ho apprezzato, ammirato, e sono stata colpita dall'equilibrio estremo nel presentare i reperti e le storie dei morti e dei morituri. Delicata e sobria come solo loro possono essere, mentre noi mediterranei avremmo spettacolarizzato al massimo tutto.
Il museo presenta una raccolta di oggetti appartenuti a ragazzi e giovani, per lo più, colpiti dalla bomba (la bomba non è esplosa a terra, è stata fatta detonare a 600 metri di altezza) investiti dall'onda d'orto e dal calore sprigionatosi. In teche sobrie abbiamo abiti carbonizzati, strappati, vetri fusi, oggetti contorti. Vengono mostrati gli effetti immediati dell'esposizione alle radiazioni, e quelli successivi. Viene mostrata la città devastata, distrutta completamente, un cumulo di macerie radioattive in cui si aggirano i superstiti disperati alla ricerca dei parenti.
Ho ammirato il coraggio e l'incoscienza di chi ha scattato queste foto, incurante di tutto.
Ci sono le storie, le storie di grandi e soprattutto di ragazzi, che ne hanno fatto le spese più di tutti.
C'è la storia del bambino piccolo di cui rimane sono il triciclo bruciato, quello della giovane studentessa di cui la madre ha trovato solo un sandalo, riconosciuto perché fatto da lei, con la stoffa del suo kimono.
E poi c'è la storia di chi è sopravvissuto, ma è morto pochi giorni dopo. E chi è sopravvissuto e ha subìto gli effetti della bomba.
Come Sadako, una bambina nata e cresciuta sana che all'età di 11 anni scopre di essere malata di leucemia. Si convince che sarebbe guarita se avesse realizzato 1000 gru di carta (la gru è il simbolo giapponese della pace). Non si sa quante riesce a farne nei 14 mesi che precedono la sua morte, si sa soltanto che costruisce gru con ogni pezzo di carta riesca a trovare all'ospedale in cui viene ricoverata.
Alla sua morte tutte le sua gru vengono sepolte con lei. Ed è la sua foto sommersa di quelli che sembrano fiori colorati a chiudere la rassegna di cose e immagini dedicate a lei.
Sono banali, certo, potete vedere Sadako da bambina a scuola, durante le gare di corsa, i suoi oggetti.
Ma il vero messaggio del tutto è questo, è la banalità del male (e pace ad Annah Arendth), la normalità degli oggetti e delle vicende rappresentate. Sei tu, ma potrei tranquillamente essere io per quello che ero allora per quello che sono ora e per quello che sarò io o i miei figli in futuro.
Le gru non sono finite e i monumenti mi aspettano.
Quello per la pace dei bambini, con Sadako che regge una gru mi aspetta nella penombra della sera. Il caldo tropicale non cede e io mi faccio largo nella luce obliqua del tramonto. I turisti per la maggior parte sono scemati e così posso contemplare nell'ombra le mille gru di carta che accompagnano l'immagine della ragazza. Le celebrazioni per l'anniversario dell' A-bomb day sono appena passate, e i disegni, le gru di carta e i fiori si sprecano.
Sono io, sei tu, siamo noi.
Personalizzare le vicende le rende umanamente comprensibili e vicine.
Quello che è successo a te potrebbe accadere anche a me. Non perché tu sei diverso o peggio di me, ma per caso, un caso voluto, ti è accaduto.
E ora il tuo ricordo è qui che mi parla dicendomi che in fondo, quello che gli uomini vogliono, tutti, è vivere la loro piccola esistenza cercando sicurezza, amore e riparo.
Il concetto di pace, così espresso attraverso di te, non è affatto astratto, ma diventa molto concreto.
Perché Hiroshima?
Perché era un centro importante, alla confluenza di più fiumi, di carattere amministrativo, una città dive venivano ricoverati e addestrati i militari, una base importante, in cui, stranamente, non erano ricoverati prigionieri di guerra e che non era ancora stata bombardata. L'importanza strategica per il Giappone di questa città viene ben spiegato nella prima parte del museo della Pace. Sono raccolte foto, immagini e "reperti" dell'epoca.
Nel museo viene data una spiegazione alla giapponese della tragedia che non tocca minimamente il nocciolo del problema. Anche l'impero del Sol Levante (tutt'ora un impero) era afflitto dal morbo dell'imperialismo a spese dei Paesi circostanti. Andrebbe, per esempio, sentita le versione cinese dei fatti, una ferita ancora aperta che rende difficili le relazioni tra i Paesi ancor oggi.
Impegnato a espandersi il Giappone aveva coltivato la versione asiatica delle ambizioni di Hitler e, con la grande meticolosità giapponese, l'aveva messa in pratica.
La bomba, il cui lancio è stato preceduto da giorni e giorni di lanci di bombe "zucca" di prova è stato il penultimo atto di una guerra che doveva finire a tutti i costi. Durata più di 5 anni, con milioni di morti, doveva concludersi "a tutti i costi", se i miei ricordi di guerra non sono sbagliati.
Eppure, visitare il museo ti fa toccare con mano cosa sia, nella pratica, l'affermazione che vuole che la Storia sia sempre scritta dai vincitori. Esiste anche una storia dei vinti, e questo museo ne parla, a noi che abbiamo studiato solo la storia degli americani, con buona pace dei miei parenti socialistissimissimissimi.
Ho apprezzato, ammirato, e sono stata colpita dall'equilibrio estremo nel presentare i reperti e le storie dei morti e dei morituri. Delicata e sobria come solo loro possono essere, mentre noi mediterranei avremmo spettacolarizzato al massimo tutto.
Il museo presenta una raccolta di oggetti appartenuti a ragazzi e giovani, per lo più, colpiti dalla bomba (la bomba non è esplosa a terra, è stata fatta detonare a 600 metri di altezza) investiti dall'onda d'orto e dal calore sprigionatosi. In teche sobrie abbiamo abiti carbonizzati, strappati, vetri fusi, oggetti contorti. Vengono mostrati gli effetti immediati dell'esposizione alle radiazioni, e quelli successivi. Viene mostrata la città devastata, distrutta completamente, un cumulo di macerie radioattive in cui si aggirano i superstiti disperati alla ricerca dei parenti.
Ho ammirato il coraggio e l'incoscienza di chi ha scattato queste foto, incurante di tutto.
Ci sono le storie, le storie di grandi e soprattutto di ragazzi, che ne hanno fatto le spese più di tutti.
C'è la storia del bambino piccolo di cui rimane sono il triciclo bruciato, quello della giovane studentessa di cui la madre ha trovato solo un sandalo, riconosciuto perché fatto da lei, con la stoffa del suo kimono.
E poi c'è la storia di chi è sopravvissuto, ma è morto pochi giorni dopo. E chi è sopravvissuto e ha subìto gli effetti della bomba.
Come Sadako, una bambina nata e cresciuta sana che all'età di 11 anni scopre di essere malata di leucemia. Si convince che sarebbe guarita se avesse realizzato 1000 gru di carta (la gru è il simbolo giapponese della pace). Non si sa quante riesce a farne nei 14 mesi che precedono la sua morte, si sa soltanto che costruisce gru con ogni pezzo di carta riesca a trovare all'ospedale in cui viene ricoverata.
Alla sua morte tutte le sua gru vengono sepolte con lei. Ed è la sua foto sommersa di quelli che sembrano fiori colorati a chiudere la rassegna di cose e immagini dedicate a lei.
Sono banali, certo, potete vedere Sadako da bambina a scuola, durante le gare di corsa, i suoi oggetti.
Ma il vero messaggio del tutto è questo, è la banalità del male (e pace ad Annah Arendth), la normalità degli oggetti e delle vicende rappresentate. Sei tu, ma potrei tranquillamente essere io per quello che ero allora per quello che sono ora e per quello che sarò io o i miei figli in futuro.
Le gru non sono finite e i monumenti mi aspettano.
Quello per la pace dei bambini, con Sadako che regge una gru mi aspetta nella penombra della sera. Il caldo tropicale non cede e io mi faccio largo nella luce obliqua del tramonto. I turisti per la maggior parte sono scemati e così posso contemplare nell'ombra le mille gru di carta che accompagnano l'immagine della ragazza. Le celebrazioni per l'anniversario dell' A-bomb day sono appena passate, e i disegni, le gru di carta e i fiori si sprecano.
Sono io, sei tu, siamo noi.
Personalizzare le vicende le rende umanamente comprensibili e vicine.
Quello che è successo a te potrebbe accadere anche a me. Non perché tu sei diverso o peggio di me, ma per caso, un caso voluto, ti è accaduto.
E ora il tuo ricordo è qui che mi parla dicendomi che in fondo, quello che gli uomini vogliono, tutti, è vivere la loro piccola esistenza cercando sicurezza, amore e riparo.
Il concetto di pace, così espresso attraverso di te, non è affatto astratto, ma diventa molto concreto.
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