sabato 31 agosto 2013

Pigrizia

Non doveva essere una prerogativa della primavera la pigrizia?
E invece, con settembre alle porte, mi trovo più svogliata che mai...

Ritrovarsi

Sono le 7 e mezza di sabato mattina.
La sveglia sua lasciandomi tramortita.
Non è un sabato lavorativo e, dunque, cosa ci fa un ghiro come me sveglio alle 7 e mezza?
 
Sta per andare al mercato con la sua amica di più vecchia data.
Che, tra lavoro, casa enorme, difficoltà varie a incrociarsi, è diventata una "preda" difficile da carpire.
Unico spazio da cogliere, tra conviventi, animali, genitori e ristrettezze economiche, il sabato mattina.
 
Ogni volta che torno al mio paese, da cui sono felicissimamente emigrata, percorro lietamente la strada in auto, nella calma di un sabato mattina deserto. Ormai l'aria è quella di settembre, frizzante anche in un giorno soleggiato come questo.
Ci troviamo ogni volta come se non fosse passato un giorno.
Mentre giro a destra intravedo la sua sagoma che mi aspetta sul ciglio della strada, mezza nascosta nella rientranza del vicolo. Hanno ridipinto le case, tagliato alberi, ma la sua sagoma che mi aspetta alta e imponente nella luce del primo mattino non cambia mai.
 
Tatiana è la mia più vecchia amica. Una delle poche che hanno conosciuto mio padre, mia nonna e tutti quelli della mia famiglia che non ci sono più. Conosce quello che è successo prima, quello che è successo durante e quello che è successo dopo.
Conosce la me di tutte le mie vite, anche di questa che io considero almeno la terza, se non la quarta.
E, nella sua straordinaria intelligenza, non giudica mai, anche se riflette sempre su tutto.
 
Con lei posso parlare e sparlare di politica, anche tra i banchi di frutta e verdura.
I nostri discorsi hanno un andamento quasi surreale: spaziano dall'attualità, sempre e rigorosamente locale (abbiamo commentato per un quarto d'ora il rifacimento di una rotonda con costose piante che moriranno, con certezza, ai  primi freddi), alle questioni interne politiche, sempre in salsa gustosa, alle valutazioni tecniche sullo smalto semipermanente.
 
Comprare, non abbiamo comprato quasi niente: il mercato, ancora mezzo vuoto, ci ha presentato gli ultimi rimasugli stagionali. Il mio entusiasmo per l'unico banco con la nuova collezione è stato smorzato dalla mia immagine in una nuova giacchina di jersey, bellissima, ma che mi stava bene come dopo un incontro con Alien.
 
Ma i nostri soliti giri hanno un che di rassicurante: la spesa con un carrello in condivisione, la puntata al negozio di animali, il frugare tra i banchi...
 
Anche i silenzi, le frasi senza importanza, hanno il loro rassicurante peso. Nessun giudizio, nessuna necessità di dimostrare niente, di essere brillanti, intelligenti, accattivanti.
 
Mentre torno a casa mi sento più rilassata, come se avessi riassestato il tiro, ricomposto l'immagine con il contenuto, abbandonato strati e strati di finzioni/malintesi/ripicche che mi hanno portato a essere quello che non sono. Finalmente, lo posso proprio dire, a casa....

venerdì 30 agosto 2013

Una vacanza romantica

Cannes? Le Maldive? Santo Domingo?
No, la mia idea di vacanza romantica è... due giorni in tenda a Carcoforo, provincia di Vercelli, in Val Sesia. Poco più di 200 abitanti, nella bella stagione, è un minuscolo paesello al fondo della Val d'Egua. Gli unici comuni della Val d'Egua, per capirci, sono Rimasco e Carcoforo.
 
Poche case, nello stile tipico valsesiano, tetto grigio di ardesia, particolari di legno scuro.
Fontanella con acqua gelida come d'obbligo, cervi e cerbiatti che si tengono a debita distanza (per fortuna, visti i precedenti), un centro sportivo, un solo ristorante assai ruspante in cui si mangia polenta con formaggio, con cervo, con... polenta! e... Polenta ancora, oltre al cornetto Algida.
 
Microclima tipico della Val Sesia.
Se non piove, almeno una volta al giorno ci preoccupiamo.
 
Le auto sono bandite: si gira a piedi, in teoria in bicicletta (in pratica non ce la si fa), la domenica mattina ci sono pochi banchetti del mercato che vendono cianfrusaglie e toma, burro e prodotti locali.
 
Insomma, il nulla.
 
Ma è un nulla radioso, un nulla verde e armonioso, un nulla quasi divino.
Un nulla in cui puoi passeggiare nel verde "vero", non piantato o addomesticato dell'uomo, senza incontrare nessuno. Un nulla in cui puoi toccare il silenzio, riempito solo dalle voci della natura, insetti, uccelli e stormir di fronde.
Un nulla senza zanzare.
Un nulla senza l'umidità opprimente delle risaie.
 
Insomma, il luogo del divertimento sarebbe lo spiazzo (dotato di griglie), sotto qualche abete, vicino al torrente, deputato a campeggio.
Servizi ridotti al minimo, turismo ruspante di chi passa la giornata intera a ingozzarsi sotto la veranda del camper.
 
E l'angolino che scende al fiume, l'ideale per scendere al torrente e piazzarci le bottiglie a raffreddarsi.
 
Un posto il cui fascino, per me, risiede nella possibilità di fare cose semplici, in modo semplice, stando a tu per tu senza distrazioni né interferenze. Al massimo qualche pallonata dei soliti bambini molesti o gli schiamazzi degli altrettanto molesti genitori.
 
Ogni volta che ci torno mi rinfranco lo spirito, depuro la mente, tranquillizzo l'anima, ultimamente piuttosto tormentata. Il nulla, come l'acqua del torrente che scorre, la vallata stretta e verde, il sole che viene festeggiato.
 
La montagna, ma questa, non quella pretenziosa, mi mette di buon umore (e mi stimola anche l'appetito...). Peccato che non sappia sciare, detesti il freddo, odi le salite, sia fuori forma da 15 anni almeno, abbia un menisco poco in forma. Ma per campeggiare romanticamente vicino al torrente, io e te, tu e io e una bistecca alla griglia sono sempre in prima fila.....
 

Pedoni versus ciclisti

Ogni santissimo giorno, uscendo dal portone dell'azienda, ho circa il 70% di probabilità di venire stesa da una bicicletta e almeno il 50% di essere travolta da una mandria di pedoni che rasentano il muro.
 
Ogni santissimo giorno, quando riesco a passare incolume i due attraversamenti dei binari del tram e arrivo alla metro tiro un sospiro di sollievo.
 
E anche oggi, per fortuna, ce l'ho fatta.
Non mi hanno investita.
 
La porta scorrevole della mia azienda si apre su un marciapiede ampio, transennato per far posto a un doppio binario chiuso del tram, accanto a una strada a scorrimento a senso unico.
La pista ciclabile termina almeno 200 metri prima, o meglio, prende un'altra direzione, passando in mezzo al parco. Ma non importa: vecchi, per lo più, immigrati, per la gran parte, sfrecciano in contromano sul marciapiede, rasente muro.
 
Ognuno di noi si affaccia prudente ogni volta che sta per uscire dall'azienda.
I contusi e gli "stesi" non si contano.
 
E tutto, per evitare due metri in più in sella.
 
Ho macinato km e km da ragazza tra i paesi della Bassa.
Amo la bicicletta e amo pedalare, così come amo la campagna da cui vengo.
 
Ma, ultimamente, odio i ciclisti.
In particolare quelli milanesi.
Metti un mezzo, fosse pure un triciclo, in mano a un essere vivente e questo si sente un dio, superiore a tutti e sprezzante l'umanità appiedata.
 
Salvo poi lamentarsi degli automobilisti cattivi.....
 
 
 
 

giovedì 29 agosto 2013

Gelosia canaglia

Ieri pomeriggio stavo faticosamente lavorando al solito metro cubo di idiozie post ferie.
Preso lo slancio, stavo scrivendo le consuete banalità economiche condite, dopo un mese di digiuno.
 
Il nostro barbuto mi chiama, brandendo un foglio.
Accidenti, penso, accidenti, proprio adesso che avevo ingranato.
Esco dall'ufficio pensando a un argomento lavorativo.
Proprio in quel momento, davanti all'ascensore, staziona il bello con tutto il suo ufficio.
 
Così, con un saluto e con le consuete banalità, inizia il balletto del Geloso.
Il quale crede che il bello sia il suo rivale e, quindi, non perde occasione per tentare di svilirlo ai miei occhi, dipingendone un'immagine poco attraente, se non scostante.
 
Cerco di smarcarmi, immaginandomi cosa ne seguirà e volendo a tutti i costi continuare a lavorare in santa pace.
 
Ma non ci riesco. Gli propongo di sbrigarsela tra loro due, mentre striscio verso la fontanella dell'acqua. Nossignore. Il barbuto lo bersaglia di domande. L'altro risponde, cortese, educato, gentile.
A tratti ironico. Io osservo il nostro uomo che blatera ridicolmente, annotando mentalmente tutte le idiozie che dice. La sua facondia nell'affermare banalità pare senza limite.
E l'immagine è questa.
Uno uomo dai tratti delicati, sciatto in una Lacoste rosa che ha visto tempi migliori, jeans informi e sandali orripilanti è appoggiato al davanzale della finestra. A fianco, un uomo alto e con un bel fisico, non bellissimo di volto, ma impeccabile nell'aspetto gli sta accanto.
Entrambi si voltano verso di me, e io capisco che è venuto il momento di cominciare le danze.
 
Il grande blateratore parte facendo osservare a me e a lui quanto lui sia invecchiato. Gli fa notare con grande delicatezza i capelli grigi, e i fili bianchi della barba, ammettendo che, sì, anche lui, che è più vecchio, ne ha qualcuno. Ah, ma lui li ama i suoi, sissignore.
Fanno uomo vissuto.
 
E così, la scena si ripete all'infinito, a colpi di fioretto. Uno avanza, allunga la stoccata, l'altro arretra, schiva con classe o in silenzio e l'altro incalza ancora. E io, mio malgrado, mi trovo in mezzo ai due, arbitro, giudice, oggetto.
 
E alla fine, il test.
Il Geloso si piazza tra noi due e ci sottopone a un test sulla nostra modernità.
Un'idiozia cosmica, senza risultati.
A questo punto è lui a essere in mezzo a noi due.
Alle domande il geloso si premura di dare anche le risposte, per tutti e tre.
E con fatica si attacca a ogni frase, a ogni risposta, a ogni pausa.
Con pennellate forsennate dipinge il ritratto di un uomo per me irraggiungibile, attratto solo dalle donne più giovani, rigido e terribilmente salutista.
Lui ammorbidisce, esprime eccezioni, stempera.
 
E poi, mentre il geloso, per la milionesima volta, imbastisce il teatrino in cui chiede a lui quanti anni ha, finge di sorprendersi scoprendo che abbiamo la stessa età, ribadisce il concetto della mia "vecchiaia", e si mette a indagare sul mese di nascita, lui se ne esce dimostrando perfettamente di ricordare il mio compleanno.
Lo pronuncia con sicurezza, appoggiato alla mensola, guardandomi negli occhi.
E io, lo confesso, mi emoziono.
 
Senza riflettere iniziamo a parlare, in una schermaglia di battute che sa di flirt, mentre il geloso, che non capisce bene ciò che accade, ci guarda preoccupato e ansioso insieme.
Neppure io so bene cosa succede, a dire il vero.
 
Ma, quando tutto è finito, il sapore di un sorriso mi rimane sulle labbra.
 
 
 
 

Inquinamento emotivo

Sono bastati tre giorni, dico tre, di lavoro per generare quella cappa tenace di malumore che mi ha rovinato il pomeriggio.
Una spessa, coriacea cappa di emotività, frustrazione, risentimento, delusione e, soprattutto, stanchezza. Il primo passo è stato riconoscerla, individuare con chiarezza il ventaglio di sentimenti che mi sommergeva e ammetterlo.
La colpa è di un pranzo concesso con leggerezza, sulla scia della stessa leggerezza con cui sono planata alla scrivania, dopo ferie assai vivaci. Un regalo e una telefonata gentile, alcuni complimenti e mi ritrovo, mio malgrado, a pranzo con il mio ex carnefice.
 
Le premesse non erano delle migliori.
Un forte temporale e un robusto acquazzone hanno colpito la periferia Nord Est di Milano, stazionando sulla nostra zucca per due ore. La mattina, da freschina è diventata fredda. La mia gola delicata era già in fiamme, aiutata da un abbigliamento assai estivo e del tutto inadeguato.
Il nostro campione è arrivato di umore plumbeo, non ha detto una parola a nessuno, se non un rimprovero a Dani per l'odore delle sue gallette di riso (!). Ha spalancato le finestre ed è sprofondato sulla sua sedia.
 
Ho pensato:- No, io un musone così non lo reggo. Con questo non vado a pranzo, non sono mica un'assistente sociale.-. Ma come fare per non urtare ancor di più lo spiacevole commensale?
Ho cercato di convincerlo ad estendere l'invito ad altri.
No. Nisba. Nada. Non se ne parla.
 
Complice la pioggia andiamo in un bar vicino, e io attacco a parlare delle vacanze.
L'argomento Giappone è gettonato, la meta piuttosto esotica anche per lui.
Conto di tirar così la fine del pranzo, io che non amo i monologhi.
Parlo, mi mostro gentile, educata, simpatica e cordiale.
 
Ma non resiste, lui, a bersagliarmi con il racconto delle ferie offerte alle sanghisughe.
Due settimane al mare più una bella vacanza stile famigliola in Umbria, con lui, che non si muove mai in auto, che scarrozza i vampiri per il Centro Italia.
Il racconto, in parte comico, in parte ridicolo, fatto da lei a lui dei tanti numeri di telefono di uomini ricevuti e poi buttati, mi ha strappato una battuta. E come no, immagino, è il partito ideale lei. Di gran classe poi.
 
E così, lo capisco ora, mi sono rannuvolata.
Io non voglio essere la sua confidente.
Io non voglio essere educata.
Io non voglio essere gentile.
 
Io non voglio più, ogni giorno, rappresentare un'immagine di me stessa, di quella superiore a tutto e tutti. Per stare bene devo smettere di voler dimostrare qualcosa, di recitare me stessa.
 
Semplicemente questo. Per salvare me, devo liberarmi di me, prima di tutto.
Devo smettere di resistere.
 
E così ho annullato un appuntamento con un'amica.
L'umore terreo mi ha afflitta fino a casa, annacquandosi prima in treno e poi dissolvendosi sotto una lunghissima doccia profumata.
 
Quello che mi è ogni giorno difficile è perdonarmi.
Perdonarmi per non essere riuscita a raggiungere i miei obiettivi.
Ma tutto questo arrovellarsi deve finire, perché non solo è inutile, ma è come cercare di fare ginnastica nelle sabbie mobili.
 
Tutto quello che c'è da fare, è rimanere e andare avanti.
 
 

Interessante editoriale del Corriere di oggi su Imu e incognita tasse locali future

http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_29/Un-passo-avanti-e-molte-incognite_b6be093a-106b-11e3-abea-779a600e18b3.shtml

mercoledì 28 agosto 2013

La curva dei tuoi occhi intorno al cuore - Paul Eluard

La curva dei tuoi occhi intorno al cuore
ruota un moto di danza e di dolcezza,
aureola di tempo, arca notturna e sicura
e se non so più quello che ho vissuto
è perchè non sempre i tuoi occhi mi hanno visto.

Foglie di luce e spuma di rugiada
canne del vento, risa profumate,
ali che coprono il mondo di luce,
navi cariche di cielo e di mare,
caccia di suoni e fonti di colori,

profumi schiusi da una cova di aurore
sempre posata sulla paglia degli astri,
come il giorno vive di innocenza,
così il mondo vive dei tuoi occhi puri
e tutto il mio sangue va in quegli sguardi.

Paul Eluard
 
da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/poesie/poesie-d-autore/poesia-17845?f=a:715>

La democrazia è esportabile? Un altro modo di interrogarsi della bontà degli interventi militari

In queste ore concitate, costellate dalle voci di intervento sì/intervento no da parte degli Usa in Siria, continua a frullarmi nella testa una domanda: la democrazia è esportabile? In altri termini, intervento militare e democrazia come convivono?

La memoria mi torna ai tempi dell'intervento in Serbia.
Posto che lasciar far fuori gli altri inermi non è bello, far fuori i civili della parte avversa è altrettanto brutto. Come se, per esempio, ci fosse un'idea di guerra a senso unico, ci sono i buoni (ogni stato ex Jugoslavia aveva i suoi militari, invece, non solo i serbi) e i cattivi. Quelli giudicati dell'opinione internazionale cattivi, intendo.

E invece ci sono i civili poi, in mezzo, tutti gli altri.

Ora, in mezzo ai mille dubbi e alle incertezze di questo periodo, mi chiedo: sarà l'ennesima carneficina ammantata da nobili motivi umanitari? 
La democrazia è la forma più imperfetta di governo, ma l'unica possibile. Chi ha detto questo?

Credo nella democrazia, ma non sono certa che tutti i popoli la vogliano a tutti i costi.
Alti costi per una democrazia fragile, pallido sembiante di quella sorta "dal basso", reale.
La democrazia valorizza tutti io componenti della società e rende loro giustizia.
Ma io penso all'Iraq e a quel fantoccio di finta democrazia imposto dall'alto, ai costi umani continui.
Gli attentati, i morti, le bombe, una storia e una cultura polverizzate e perse per sempre.
AlQaeda vive di queste vicende, vive meglio, pensa un po', dove si cerca democrazia a tutti i costi e a dispetto di tutto. A volte mi chiedo se, ovunque, in realtà, la democrazia sia una continua conquista, mai acquisita, mai ottenuta del tutto, sempre in pericolo, per tutti.

Quindi, dobbiamo bombardare la Siria sul serio?
Ciò è bene, è giusto, è doveroso?

Per questo non ho, ora, una risposta chiara, né razionale, né emotiva...

Martin Luther King - I have a dream - 28 agosto 1963

I am happy to join with you today in what will go down in history as the greatest demonstration for freedom in the history of our nation.

Five score years ago, a great American, in whose symbolic shadow we stand today, signed the Emancipation proclamation. This momentous decree came as a great beacon light of hope to millions of Negro slaves who had been seared in the flames of withering injustice. It came as a joyous daybreak to end the long night of their captivity.

But one hundred years later, the Negro still is not free. One hundred years later, the life of the Negro is still sadly crippled by the manacles of segregation and the chains of discrimination. One hundred years later, the Negro lives on a lonely island of poverty in the midst of a vast ocean of material prosperity. One hundred years later, the Negro is still languished in the corners of American society and finds himself an exile in his own land. And so we've come here today to dramatize a shameful condition.

In a sense we've come to our nation's capital to cash a check. When the architects of our republic wrote the magnificent words of the Constitution and the declaration of Independence they were signing a promissory note to which every American was to fall heir. This note was a promise that all men, yes, black men as well as white men, would be guaranteed the "unalienable Rights" of "Life, Liberty and the pursuit of Happiness." It is obvious today that America has defaulted on this promissory note, insofar as her citizens of color are concerned. Instead of honoring this sacred obligation, America has given the Negro people a bad check, a check which has come back marked "insufficient funds."

But we refuse to believe that the bank of justice is bankrupt. We refuse to believe that there are insufficient funds in the great vaults of opportunity of this nation. And so, we've come to cash this check, a check that will give us upon demand the riches of freedom and the security of justice.

We have also come to this hallowed spot to remind America of the fierce urgency of Now. This is no time to engage in the luxury of cooling off or to take the tranquilizing drug of gradualism. Now is the time to make real the promises of democracy. Now is the time to rise from the dark and desolate valley of segregation to the sunlit path of racial justice. Now is the time to lift our nation from the quicksands of racial injustice to the solid rock of brotherhood. Now is the time to make justice a reality for all of God's children.

It would be fatal for the nation to overlook the urgency of the moment. This sweltering summer of the Negro's legitimate discontent will not pass until there is an invigorating autumn of freedom and equality. Nineteen sixty-three is not an end, but a beginning. And those who hope that the Negro needed to blow off steam and will now be content will have a rude awakening if the nation returns to business as usual. And there will be neither rest nor tranquility in America until the Negro is granted his citizenship rights. The whirlwinds of revolt will continue to shake the foundations of our nation until the bright day of justice emerges.

But there is something that I must say to my people, who stand on the warm threshold which leads into the palace of justice: In the process of gaining our rightful place, we must not be guilty of wrongful deeds. Let us not seek to satisfy our thirst for freedom by drinking from the cup of bitterness and hatred. We must forever conduct our struggle on the high plane of dignity and discipline. We must not allow our creative protest to degenerate into physical violence. Again and again, we must rise to the majestic heights of meeting physical force with soul force.

The marvelous new militancy which has engulfed the Negro community must not lead us to a distrust of all white people, for many of our white brothers, as evidenced by their presence here today, have come to realize that their destiny is tied up with our destiny. And they have come to realize that their freedom is inextricably bound to our freedom.

We cannot walk alone.

And as we walk, we must make the pledge that we shall always march ahead.

We cannot turn back.

There are those who are asking the devotees of civil rights, "When will you be satisfied?" We can never be satisfied as long as the Negro is the victim of the unspeakable horrors of police brutality. We can never be satisfied as long as our bodies, heavy with the fatigue of travel, cannot gain lodging in the motels of the highways and the hotels of the cities. We cannot be satisfied as long as the negro's basic mobility is from a smaller ghetto to a larger one. We can never be satisfied as long as our children are stripped of their self-hood and robbed of their dignity by signs stating: "For Whites Only." We cannot be satisfied as long as a Negro in Mississippi cannot vote and a Negro in New York believes he has nothing for which to vote. No, no, we are not satisfied, and we will not be satisfied until "justice rolls down like waters, and righteousness like a mighty stream."

I am not unmindful that some of you have come here out of great trials and tribulations. Some of you have come fresh from narrow jail cells. And some of you have come from areas where your quest -- quest for freedom left you battered by the storms of persecution and staggered by the winds of police brutality. You have been the veterans of creative suffering. Continue to work with the faith that unearned suffering is redemptive. Go back to Mississippi, go back to Alabama, go back to South Carolina, go back to Georgia, go back to Louisiana, go back to the slums and ghettos of our northern cities, knowing that somehow this situation can and will be changed.

Let us not wallow in the valley of despair, I say to you today, my friends.

And so even though we face the difficulties of today and tomorrow, I still have a dream. It is a dream deeply rooted in the American dream.

I have a dream that one day this nation will rise up and live out the true meaning of its creed: "We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal."

I have a dream that one day on the red hills of Georgia, the sons of former slaves and the sons of former slave owners will be able to sit down together at the table of brotherhood.

I have a dream that one day even the state of Mississippi, a state sweltering with the heat of injustice, sweltering with the heat of oppression, will be transformed into an oasis of freedom and justice.

I have a dream that my four little children will one day live in a nation where they will not be judged by the color of their skin but by the content of their character.

I have a dream today!

I have a dream that one day, down in Alabama, with its vicious racists, with its governor having his lips dripping with the words of "interposition" and "nullification" -- one day right there in Alabama little black boys and black girls will be able to join hands with little white boys and white girls as sisters and brothers.

I have a dream today!

I have a dream that one day every valley shall be exalted, and every hill and mountain shall be made low, the rough places will be made plain, and the crooked places will be made straight; "and the glory of the Lord shall be revealed and all flesh shall see it together."

This is our hope, and this is the faith that I go back to the South with.

With this faith, we will be able to hew out of the mountain of despair a stone of hope. With this faith, we will be able to transform the jangling discords of our nation into a beautiful symphony of brotherhood. With this faith, we will be able to work together, to pray together, to struggle together, to go to jail together, to stand up for freedom together, knowing that we will be free one day.

And this will be the day -- this will be the day when all of God's children will be able to sing with new meaning:

My country 'tis of thee, sweet land of liberty, of thee I sing.
Land where my fathers died, land of the Pilgrim's pride,
From every mountainside, let freedom ring!

And if America is to be a great nation, this must become true.

And so let freedom ring from the prodigious hilltops of New Hampshire.

Let freedom ring from the mighty mountains of New York.
Let freedom ring from the heightening Alleghenies of Pennsylvania.
Let freedom ring from the snow-capped Rockies of Colorado.
Let freedom ring from the curvaceous slopes of California.

But not only that:

Let freedom ring from Stone Mountain of Georgia.
Let freedom ring from Lookout Mountain of Tennessee.
Let freedom ring from every hill and molehill of Mississippi.
From every mountainside, let freedom ring.

And when this happens, and when we allow freedom ring, when we let it ring from every village and every hamlet, from every state and every city, we will be able to speed up that day when all of God's children, black men and white men, Jews and Gentiles, Protestants and Catholics, will be able to join hands and sing in the words of the old Negro spiritual:

Free at last! Free at last!

Thank God Almighty, we are free at last!

La crisi del secondo giorno (lavorativo)

Eccolo qui, è arrivato il secondo, tragico, giorno di lavoro.
Il suono della sveglia è arrivato alle mie orecchie con la delicatezza di una fucilata.
Mi ha riportata alla realtà alle 6 di stamattina e mi pareva di aver appena chiuso gli occhi sul primo giorno di lavoro.
 
Se il primo ha il sapore del ritorno, del ritrovarsi, del racconto, della tintarella, della novità che spezza l'assenza, il secondo ha tutto il peso del giogo eterno del lavoro.
 
Intorpidita dal sonno, mi sono alzata con fatica, ancora stanca dal giorno prima.
Di energie, nessuna traccia.
Ho ringraziato il fatto di potermi mettere tre cose addosso in questo scorcio di fine estate invece che venti capi sovrapposti come in inverno.
Con fatica mi sono trascinata davanti alla mia solita, triste colazione. Caffè lungo senza zucchero e due fette biscottate finto integrale con marmellata simil mirtillo. Una colazione veloce e trangugiata di malavoglia, con la certezza di aver fame dopo poco.
 
E fuori, i primi presagi di settembre, nell'aria umida che lascia la sua traccia sulle auto, nella luce obliqua dell'alba sorta in ritardo, più fioca, più lieve.
Lontani sono ormai gli splendori estivi.
 
In due giorni ho già recuperato le brutte abitudini, tra cui, per prima, quella di truccarmi in treno (sic!in qualche maniera).
Come un pugile suonato mi dirigo verso la stazione. Mi risveglio ferma a uno stop, rendendomi conto di guidare distrattamente. In giro, nel centro impoverito di negozi, in cui, quelli ancora aperti, sono in ferie, non c'è quasi nessuno. Solo uno stormo di piccioni si leva in volo al mio passaggio.
 
Cerco di scuotermi. Dopotutto sono al volante di un'auto.
Parcheggio in stazione, anche qui nessuno.
Il treno vuoto proprio non riesco a godermelo, anche se so che in un futuro nemmeno lontano non sarà così piacevole e silenzioso il viaggio.
 
Eccomi, come sempre a Milano.
Nel piazzale della stazione vengo accolta da poche persone.
Perfino gli ambulanti sono in ferie. Una luce pallida e un'arietta tiepida mi avvolgono, facendomi rabbrividire. Un caffè offerto, una strada calma verso il lavoro non riescono a squarciare la coltre di apatia che mi pervade.
 
28 agosto 7 e trenta, vorrei essere a casa a dormire sotto il mio bel lenzuolino nel mio pigiamino.
28 agosto 12 e trenta. Sono ancora imbambolata e imbronciata di fronte alla fatica che mi costa ogni lavoro. Eppure lavoro, convinta che il miglior modo per far passare il tempo sia quello di impiegarlo.
 
Ma sono distante, come se tra me e la realtà ci fosse un vetro, come se esistessi fisicamente in un posto dove non sono mentalmente. In un non-luogo, tra l'estate che scivola nell'autunno più delicato. Nella calma dorata che precede l'opulenza dell'autunno pieno, questo è il momento in cui, completamente, tendo alla fuga e alla pigrizia. Il momento in cui mi sento più vicina alla passione e all'abbandono, finita la frenesia delle vacanze e delle scoperte e dei viaggi, prima della frenesia del lavoro.
 
Oggi è il giorno della stasi malinconica e fatale, il giorno dell'attesa.
 
 
 
 
 
 
 

martedì 27 agosto 2013

Geniale da Maria - Corso di formazione per uomini (un po' di sano sessismo)


Corso di formazione per uomini

TEMA DEL CORSO:

diventare intelligente quanto una donna (quindi essere perfetti)

OBIETTIVO PEDAGOGICO: corso di formazione che permette agli uomini di
sviluppare quella parte del cervello della quale ignorano l'esistenza.

PROGRAMMA: 4 moduli di cui uno obbligatorio.

MODULO 1:

CORSO DI BASE OBBLIGATORIO

1. imparare a vivere senza la mamma (2000 ore).

2. la mia donna NON è MIA MAMMA (350 ore)

3. capire che il calcio non è altro che uno sport (500 ore)

MODULO 2:

VITA A DUE

1. avere bambini senza diventare geloso (50 ore)

2. smettere di dire boiate quando la mia donna riceve i suoi amici (500 ore)

3. vincere la sindrome del telecomando (550 ore)

4. non fare la pipì fuori dal water (100 ore, esercizi pratici con video)

5. riuscire a soddisfare la mia donna prima che cominci a far finta (1500 ore)

6. come arrivare fino al cesto dei panni sporchi senza perdersi (500 ore)

7. come sopravvivere ad un raffreddore senza agonizzare (300 ore)

MODULO 3:

TEMPO LIBERO

1. stirare in due tappe (una camicia in meno di due ore: esercizi pratici)

2. digerire senza ruttare mentre lavo i piatti (esercizi pratici)

MODULO 4:

CORSO DI CUCINA

Livello 1 (principianti):
gli elettrodomestici: ON = ACCESO - OFF = SPENTO

Livello2 (avanzato):

la mia prima zuppa precotta senza bruciare la pentola.

Esercizi pratici: far bollire l'acqua prima di aggiungere gli spaghetti.

 
Sono inoltre previsti dei temi speciali di approfondimento.

A causa della complessità e difficoltà di comprensione dei temi i corsi avranno un

massimo di 8 iscritti:

TEMA 1: il ferro da stiro; dalla lavatrice all'armadio: un processo misterioso

TEMA 2: tu e l'elettricità: vantaggi economici del contattare un tecnico

competente per le riparazioni (anche le più basilari)

TEMA 3: ultima scoperta scientifica: cucinare e buttare la spazzatura non

provocano ne' impotenza ne' tetraplegia (pratica in laboratorio)

TEMA 4: perché non è reato regalarle fiori anche se sei già sposato con lei

TEMA 5: il rullo di carta igienica: la carta igienica nasce da sola nel portarullo?'

(esposizioni sul tema della generazione spontanea)

TEMA 6: come abbassare la tavoletta del bagno passo a passo (teleconferenza

con l'Università di Harward)

TEMA 7: perché non è necessario agitare le lenzuola dopo aver emesso gas

intestinali (esercizi di riflessione di coppia)

TEMA 8: gli uomini che guidano possono chiedere informazioni ai passanti

quando si perdono senza il rischio di sembrare impotenti (testimonianze)

TEMA 9: la lavatrice: questa grande sconosciuta della casa

TEMA 10: è possibile fare pipì senza schizzare fuori dalla tazza? (pratica di

gruppo)

TEMA 11: differenze fondamentali tra il cesto della roba sporca e il suolo

(esercizi in laboratori di musicoterapica)

TEMA 12: l'uomo nel posto del passeggero: è geneticamente possibile non

parlare o agitarsi convulsamente mentre lei parcheggia?

TEMA 13: la tazza della colazione: lievita da se' fino al lavandino? (esercizi diretti

da Silvan)

TEMA 14: comunicazione extrasensoriale: esercizi mentali in modo che quando

gli si dice che qualcosa è nel cassetto dell'armadio non domandi in quale?

The scream - Munch

Tutti voi lo conoscete, vero? Intendo l'urlo di Munch... o meglio, questo quadro,


il cui messaggio e potenza espressiva sono indiscusse e chiare, credo, a chiunque.
Realizzato in quattro versioni, oggetto di furti (due), battuto in una delle sue realizzazioni per una cifra esorbitante, l'Urlo, visto dal vivo, è un quadro piccolo, dalle pennellate ampie, dense di colore, dai colori forti e dall'approccio ipnotico.
 
Posizionato straordinariamente in basso nel Museo Munch di Oslo, forse per permettere la visione anche ai pigmei, è il quadro che più mi incuriosiva.
 
A lungo si è dibattuto sul senso e sull'ispirazione della celeberrima tela.
Vale la pena riportare quanto scrisse lo stesso Munch a proposito:
 
« Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all'improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad una palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c'erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura... e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura. »
 
Dopo aver visto a Oslo tutto ciò che di Munch è possibile vedere, riunito per celebrare il 150° anniversario della nascita del grande pittore, posso dire, da profana, che l'angoscia e il travaglio esistenziale che le sue opere comunicano sono tangibili.
 
Le sezioni che suddividono l'opera di Munch per grandi tempi pittorici parlano chiaro: l'amore, la morte, l'incomunicabilità. nel corso del tempo le sue figure perdono particolari senza perdere espressività: hanno occhi ma non pupille, oppure perdono la bocca, le mani diventano un tratto curvo, le figure sono spesso di spalle e ripetono ossessivamente loro stesse, senza gesti, statiche, quasi in apnea. I volti sembrano maschere bianche che esprimo presagi di morte e dissoluzione.
Speranza, gioia e affetto non sono neppure palpabili.
 
La stessa distanza, mi hanno comunicato, lo stesso gelido e sterile senso di lontananza che mi hanno trasmesso anni fa Ibsen (lode comunque a Casa di bambola) e Strindberg. Un senso di metallica alienazione.
 
In ogni caso, per una volta, il senso profondo delle opere dell'artista, che è relativamente moderno, è chiaro a chiunque. Girando per le sale di due musei belli, curati, essenziali come solo nel Nord Europa possono esistere, sembra di averlo accanto Much, di scorrere la sua esistenza attraverso le tele, cogliendo le vicende essenziali, le paure, la follia, i timori.
 
Un'esperienza che vale la pena di fare, perché in fondo, le sue emozioni sono anche le nostre, quelle che ognuno di noi prova, prima o poi nella vita.
 
Terrei un Munch in casa?
Non uno a caso, certo.
Perché alcuni sono davvero inquietanti e non riuscire a dormire sotto il loro vuoto sguardo di morte.
 
Sceglierei, tra quelli che ho visto, questo:
 


Amore e Psiche... Incomunicabilità, confronto, tenerezza, e poca angoscia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

lunedì 26 agosto 2013

Affascinante bellezza esotica

Chi? Ma io, chiaramente, in viaggio in Norvegia.

A lungo mi sono coccolata nell'illusione di poter far colpo con il mio fascino, diciamo, esotico.
Questo perché mi illudevo di averlo un fascino esotico, che potesse far presa sull'ambito genere vichingo.

Ma niente affatto.
Se volevo l'ennesima prova del genere a cui somigliassi, dopo che, in Italia, mi è capitato che mi si rivolgessero in inglese, bastava venire in Norvegia e passeggiare per il centro di Oslo in piena campagna elettorale.

E' un pomeriggio soleggiato, bellissimo, caldo e limpido.
Davanti al Parlamento norvegese ci sono diversi capannelli e banchetti. Ognuno ha i suoi sostenitori, che parlano, spiegano, arringano e distribuiscono volantini.

Passo, stanca per il tanto camminare e tra me e me penso: - Che bello, per una volta non mi riempiranno di cartaccia. -.

Non ho nemmeno fatto in tempo a pensarlo che, verso di me, avanza un ragazza, giovane, alta come me e con i capelli castani. Guarda Maria, guarda me, ci guarda tutte e due e zac! Mi piazza in mano un volantino di propaganda per le elezioni politiche.

Rimango lì un momento, sto per dire qualcosa ma poi capisco.
Non sembro, evidentemente, un'italiana chiara e abbronzata, ma una norvegese bassa a abbronzata...

Addio, Sophia....

giovedì 22 agosto 2013

Nella buona e nella cattiva sorte

Sono qui che aspetto di sentirti parlare.
Di sentirti raccontare, piano e senza remore, i fatti minuti, quelli più importanti, quelli difficili da accettare.
 
Sono qui, nella buona e nella cattiva sorte, negli anni che vanno e che non sanno neppure dove andare, nelle storie passate e in quelle future.
Nel nostro presente, in cui, ora, sono del tutto viva e attenta.
Dietro i miei fili perduti ho smesso di correre.
Dietro le porte chiuse ho deciso di non sostare più, implorante.
 
Sono qui, per te, per ascoltarti senza farti domande.
Senza giudicare, senza dare soluzioni, né consigli.
Come le migliori amicizie, le sole, nella buona e nella cattiva sorte.
 
 

Clamorose bellezze asiatiche

Non so perché, sarà stata la suggestione dell'amore per la natura attribuito ai giapponesi, quello dell'alimentazione orientale sana, chi lo sa, ma mi ero fatta l'idea che fossero estremamente naturali.
 
Invece la bellezza femminile, i cui canoni sono decisamente diversi dai nostri, e parlo di tutti coloro che ambiscono a un aspetto italianamente sano (abbronzatura et similia).
 
Le profumerie sono megagalattiche, più fornite di quelle Usa (il che è tutto dire) e con mille e mille prodotti strambi diversi. Vi faccio un esempio: il collagene. Per le rughe. Ci sono fialette di collagene da bere ovunque. Versione uomo e donna.
 
Ma veniamo alla cosa più stravagante per noi. L'ideale di bellezza made in Japan vuole pelle candida. Che i giapponesi non hanno. Per non abbronzarsi le donne vanno in giro bardate come in Siberia. In generale l'abito più comune è il seguente (preciso, da giovane). Abitino, maglione con maniche lunghe sopra, pantaloni lunghi sotto il vestito, cappello, occhiali da sole, calze di nylon sempre e scarpe, chiuse o aperte.
 
Tutto per non abbronzarsi, e tutto sopra un abbondante strato di crema solare minimo con protezione 50. Non basta? E allora si mettono dei manicotti senza dita alti fino alle spalle, per lo più neri, di stoffa pesante. E, naturalmente, girano con l'ombrellino (il quale non tiene l'acqua, va precisato).
 
Ma la bellezza asiatica prevede anche acconciature voluminose.
Ebbene, sono per lo più capelli finti, che vendono ovunque e che le ragazze portano correntemente.
Code, chignon, ciocche (tante).
Hanno cercato di venderli anche a me, ma io sono bionda e lì ci sono gamme e gamme di castani... non di biondi. Parliamo poi dello sguardo maliardo delle asiatiche. Quintali di ciglia finte vengono vendute e indossate correntemente dalle ragazze giapponesi, più o meno giovani. Ne vendono mille tipi e fogge, anche per la rima inferiore dell'occhio e non solo per quella superiore.
Veniamo alle lenti a contatto finte. Graduate o meno vendono vendute in mille sfumature, anche inquietanti, di colore direttamente in profumeria per pochi soldi. Sempre in profumeria abbiamo un campionario a dir poco inquietante di unghie finte, di ogni colore, disegno, lunghezza, che richiedono o meno la colla...
 
Ma la palma della cosa più assurda ce l'ha un filo da incollare sotto la palpebra per fare... la borsa! Sotto l'occhio! Si chiama effetto bambi e serve per dare l'illusione di un occhio più rotondo. E se non basta... Allora vai con gli adesivi per fare la palpebra. Cioè per tirare su quella di sopra e dare l'illusione di una vera palpebra....
 
Paese che vai....
 
 
 
 
 

Hiroshima, impressioni

Deve essere stato in una giornata come questa, ho pensato, che è scoppiata la bomba.
Una giornata in cui, in questa città a 900 km da Tokyo, l'aria era già liquida di prima mattina.
Una mattina di agosto caldissima, come questa, in cui l'afa è già opprimente, l'umidità confonde le cose e rende i contorni degli oggetti già sfumati a una breve distanza.
 
Della mia esperienza giapponese Hiroshima è stata quella che più mi ha colpito, vuoi perché l'ignoranza occidentale rende "tutti simili" i templi religiosi, vuoi perché la cerimonia relativa all'anniversario del lancio della bomba viene trasmessa anche in occidente.
 
Hiroshima è oggi una città estremamente vitale, di cui mi ha colpito la vivacità degli abitanti (che funzioni anche qui come in Italia? Più vai verso Sud e più le persone diventano espansive?), la scelta di divertimenti.

Perché Hiroshima?
Perché era un centro importante, alla confluenza di più fiumi, di carattere amministrativo, una città dive venivano ricoverati e addestrati i militari, una base importante, in cui, stranamente, non erano ricoverati prigionieri di guerra e che non era ancora stata bombardata. L'importanza strategica per il Giappone di questa città viene ben spiegato nella prima parte del museo della Pace. Sono raccolte foto, immagini e "reperti" dell'epoca.

Nel museo viene data una spiegazione alla giapponese della tragedia che non tocca minimamente il nocciolo del problema. Anche l'impero del Sol Levante (tutt'ora un impero) era afflitto dal morbo dell'imperialismo a spese dei Paesi circostanti. Andrebbe, per esempio, sentita le versione cinese dei fatti, una ferita ancora aperta che rende difficili le relazioni tra i Paesi ancor oggi.
Impegnato a espandersi il Giappone aveva coltivato la versione asiatica delle ambizioni di Hitler e, con la grande meticolosità giapponese, l'aveva messa in pratica.

La bomba, il cui lancio è stato preceduto da giorni e giorni di lanci di bombe "zucca" di prova è stato il penultimo atto di una guerra che doveva finire a tutti i costi. Durata più di 5 anni, con milioni di morti, doveva concludersi "a tutti i costi", se i miei ricordi di guerra non sono sbagliati.

Eppure, visitare il museo ti fa toccare con mano cosa sia, nella pratica, l'affermazione che vuole che la Storia sia sempre scritta dai vincitori. Esiste anche una storia dei vinti, e questo museo ne parla, a noi che abbiamo studiato solo la storia degli americani, con buona pace dei miei parenti socialistissimissimissimi.

Ho apprezzato, ammirato, e sono stata colpita dall'equilibrio estremo nel presentare i reperti e le storie dei morti e dei morituri. Delicata e sobria come solo loro possono essere, mentre noi mediterranei avremmo spettacolarizzato al massimo tutto.

Il museo presenta una raccolta di oggetti appartenuti a ragazzi e giovani, per lo più, colpiti dalla bomba (la bomba non è esplosa a terra, è stata fatta detonare a 600 metri di altezza) investiti dall'onda d'orto e dal calore sprigionatosi. In teche sobrie abbiamo abiti carbonizzati, strappati, vetri fusi, oggetti contorti. Vengono mostrati gli effetti immediati dell'esposizione alle radiazioni, e quelli successivi. Viene mostrata la città devastata, distrutta completamente, un cumulo di macerie radioattive in cui si aggirano i superstiti disperati alla ricerca dei parenti.
Ho ammirato il coraggio e l'incoscienza di chi ha scattato queste foto, incurante di tutto.

Ci sono le storie, le storie di grandi e soprattutto di ragazzi, che ne hanno fatto le spese più di tutti.
C'è la storia del bambino piccolo di cui rimane sono il triciclo bruciato, quello della giovane studentessa di cui la madre ha trovato solo un sandalo, riconosciuto perché fatto da lei, con la stoffa del suo kimono.

E poi c'è la storia di chi è sopravvissuto, ma è morto pochi giorni dopo. E chi è sopravvissuto e ha subìto gli effetti della bomba.

Come Sadako, una bambina nata e cresciuta sana che all'età di 11 anni scopre di essere malata di leucemia. Si convince che sarebbe guarita se avesse realizzato 1000 gru di carta (la gru è il simbolo giapponese della pace). Non si sa quante riesce a farne nei 14 mesi che precedono la sua morte, si sa soltanto che costruisce gru con ogni pezzo di carta riesca a trovare all'ospedale in cui viene ricoverata.
Alla sua morte tutte le sua gru vengono sepolte con lei. Ed è la sua foto sommersa di quelli che sembrano fiori colorati a chiudere la rassegna di cose e immagini dedicate a lei.
Sono banali, certo, potete vedere Sadako da bambina a scuola, durante le gare di corsa, i suoi oggetti.
Ma il vero messaggio del tutto è questo, è la banalità del male (e pace ad Annah Arendth), la normalità degli oggetti e delle vicende rappresentate. Sei tu, ma potrei tranquillamente essere io per quello che ero allora per quello che sono ora e per quello che sarò io o i miei figli in futuro.

Le gru non sono finite e i monumenti mi aspettano.
Quello per la pace dei bambini, con Sadako che regge una gru mi aspetta nella penombra della sera. Il caldo tropicale non cede e io mi faccio largo nella luce obliqua del tramonto. I turisti per la maggior parte sono scemati e così posso contemplare nell'ombra le mille gru di carta che accompagnano l'immagine della ragazza. Le celebrazioni per l'anniversario dell' A-bomb day sono appena passate, e i disegni, le gru di carta e i fiori si sprecano.

Sono io, sei tu, siamo noi.
Personalizzare le vicende le rende umanamente comprensibili e vicine.
Quello che è successo a te potrebbe accadere anche a me. Non perché tu sei diverso o peggio di me, ma per caso, un caso voluto, ti è accaduto.

E ora il tuo ricordo è qui che mi parla dicendomi che in fondo, quello che gli uomini vogliono, tutti, è vivere la loro piccola esistenza cercando sicurezza, amore e riparo.
Il concetto di pace, così espresso attraverso di te, non è affatto astratto, ma diventa molto concreto.

 

lunedì 19 agosto 2013

Viaggi e viaggiatori

Il mio scomodo viaggio di ritorno parte su un aereo pienissimo fino allo scoppio.
Motivo: l'Alitalia (con cui volo) ha annullato il precedente diretto Tokyo-Milano e tutti i passeggeri che ci stavano sono stati "smistati" sul mio volo che faceva, invece, scalo a Roma.
 
Complice questo disguido, io e una serie di altri poveracci non abbiamo ricevuto l'assegnazione del posto al momento del check in.
Solo al momento dell'imbarco abbiamo avuto, per fortuna, il nostro posto.
La fortuna vuole che mi sia trovata a fianco dell'elemento maschile di una coppietta di ragazzi con la parte femminile decisamente infantile.
 
Non ho fatto in tempo a sedermi che questa è partita all'attacco, iniziando a sbraitare perché non era seduta vicino al suo ragazzo. La lamentela aveva tutto il tono del capriccio infantile, che in breve tempo ha coinvolto tutti gli assistenti di volo. Motivo, non poteva fare 12 ore di viaggio da sola... Per sola intendo dire a due posti di distanza su un aereo che ne portava più di 300. Per una questione matematica di assegnazione dei posti non è stato possibile piazzarli accanto (per accanto intendo dire appiccicati), neppure facendo mille tentativi di incastro.
 
Apriti o cielo.
 
Il viaggio è durato 12 ore. Almeno 4 delle quali la tizia le ha passate maledicendo l'Alitalia, 4 gli altri passeggeri poco disponibili, e le rimanenti letteralmente in braccio a me.
 
I protagonisti della vicenda sono due tardo adolescenti (pare duri fino a 34 anni) abbigliati in perfetto stile italian fighetto da viaggio. Occhiale giusto, pantalone giusto, camicia bianca (si è mai vista una camicia bianca per 12 ore di viaggio?). Sembravano usciti da una pubblicità della roba di Lapo Elkann. Lui con l'aria proprio del bravo ragazzo educato e a modo. Lei bruttina e lagnosa, coperta di firme. Ho chiacchierato piacevolmente con lui, ma lei era implacabile.
Dopo aver coinvolto tutto lo staff degli assistenti di volo per farle trovare un posto vicino al suo fanciullo, e averli tormentati per ore, deve aver preso l'aereo per un pullman da gita scolastica.
Lui, a fatica, l'ha convinta a tornare a sedere almeno per il decollo e per la distribuzione di pasti e bevande. Ma questo non le ha impedito di strillare, nei momenti in cui erano separati, con un delizioso accento romano, per richiamare l'attenzione del nostro bello. Per: lamentarsi, e dirgli cosa doveva bere e mangiare e guardare alla tv.
 
Il "bello" è stato che, nei momenti intermedi, lei ha preteso di passare un sacco di tempo in braccio al nostro eroe, esibendosi in una serie di moine lagnose che hanno veramente del ridicolo, effusioni fuori luogo e, data la scarsa ampiezza dei sedili, giacendo in braccio alla sottoscritta.
A un certo momento ho pensato di essere in gita scolastica.
Ma io non ne vorrei più fare... però!
 
A fatica lui cercava di riportarla a un livello di invadenza sostenibile, e lei perseverava, rimproverandolo di volerla cacciare.
Una lagna eterna, fatta di trilli di rimprovero e mugugni di scuse...
 
In una parola, l'ho detestata.
Va bene essere viziati, va bene essere un po' infantili, ma i bambini non vanno in Giappone, al massimo vanno a Cattolica con la mamma.
E quindi, un piccolo consiglio, prima cresci e poi vai a Tokyo.
Per lui, figliolo, almeno chiarisciti le idee su quello che vuoi bere. E poi, capisco che quando si è così giovani determinate attrattive compensano molti difetti, ma fidati, ci saranno altre opportunità meno petulanti.
 
Infine, ma perché leggevano la guida di Tokyo al ritorno quando di norma si legge all'andata?
Cos'hanno fatto in Giappone?!?!
 

domenica 18 agosto 2013

I voraci cervi di Nara

Nara è stata la prima capitale del Giappone, per soli 75 anni.
In precedenza, alla morte di ogni imperatore, in ottemperanza ai principi dello scintoismo, la capitale, veniva spostata. In seguito all'introduzione del buddismo in Giappone, la capitale da itinerante divenne stanziale e venne scelta Nara.
 
Oggi è raggiungibile da Kyoto con un breve tragitto in treno ed è la classica meta da gita giornaliera per chi si trova in Giappone per il tour delle tre capitali, come me.
 
La principale attrattiva della città consiste nel parco con il percorso dei templi (sono 7 km di strada) nella bella foresta di Nara.
Il cervo, animale sacro, popola felice e addomesticato il parco, per la gioia dei turisti.
 
Che bello, pensate voi, avvicinare i dolci bambi, accarezzarli, farci le foto, e magari dargli qualcosa la mangiare. Bellissimo, ma prima sappiate che il cervo è un animale grande. Se siete alte in un intorno di 1,6 metri, entrate nell'ottica che un maschio adulto con imponenti corna vi guarda quasi negli occhi, e può spintonarvi con 4 robuste zampe.

Ma questo lo imparate dopo. Prima vi godrete la seguente avventura, come è capitato a me.
Con entusiasmo infantile sbarcherete a Nara, pronte per la visione del Budda gigante.
Estasiate davanti al colosso, metterete in pratica le vostre novelle conoscenze in fatto di buddismo.
Ancora sotto l'effetto ipnotico dell'incenso ammirerete la statua gigante, e le altre, altrettanto grandi, di contorno. Avrete fatto l'offerta, osservato i souvenir, e poi, avrete consultato la piantina del percorso dei templi.
 
Infine, dopo esservi adeguatamente acculturate, in un attimo di pause, avrete guardato intorno, con una certa invidia, gli altri turisti, intenti a vezzeggiare i cervi.
Avrete notato un banchetto di biscotti e vi sarete dette: -E perché no?-.
 
Ho comprato un pacchetto di biscotti. Appena ho allungato la mano si è alzato tutto il branco, e mi sono vista circondata e sospinta da almeno dieci bestiacce.
Avanzavano compatte, e alzavano le loro teste con le bocche aperte e le labbra protese, tanto da far intervenire la signora del banchetto che li ha cacciati con una pinza di ferro. Arretrando mi sono trovata ad avanzare tenendo ben alti sopra la testa i biscotti, con tutta la carovana dietro a spingere. Lo confesso, al primo accenno di salto ho avuto al tentazione di darmi alla fuga.
Ho pensato, però, che loro correvano molto più veloce di me....
Per cui mi sono detta: - Me ne devo liberare.-.
Al primo accenno di biscotto sono stata assediata nel vero senso del termine, un pezzo a te, un altro a te... finché non è arrivato un grosso animale che, guardandomi minaccioso negli oggi, mi diceva chiaramente: - Com'è che qui non è arrivato nulla???-. Prima ha cercato di attrarre la mia attenzione con una nasata e poi, ha messo in pratica il piano B. Ovvero, a preso la mira, ha trovato il punto e... ahia! mi ha morsicato la pancia.
Per un attimo ho avuto la tentazione di dargli un ceffone, poi mi sono contenuta.
 
E così, mi sono trovata nell'imbarazzante condizione di chi viene scambiato per una borsa.
I cervi, infatti, come ricordano i cartelli di avvertimento, mordono le borse, spingono, incornano e altro di poco bello. E io.... beh, hanno scambiato la mia pancia per una borsa! Tristezza suprema.
Costernata, umiliata e dolorante ho deciso: palestra palestra palestra signori, senza dubbio!





domenica 4 agosto 2013

Nuovo inquilino?

Oggi, ultimo pranzo prima della partenza di stanotte, mentre pranzo con la porta aperta sul giardino, mi volto, sobbalzando ai forti miagolii di un delicato miciotto bianco e rosso, che con insistenza vuole entrare in casa.
 
Fame, fame nera, spazza via un piattino di crocchette come ridere.
Si lascia coccolare, grattare e accarezzare senza mostrare paura alcuna.
 
In apparenza è un soffice maschio.
 
L'avranno mica abbandonato?
Lo sapremo presto, credo....
 
(saremmo a quattro mici, il Teo, le due questuanti e... miciotto!).

Un'indefinibile sensazione di casa

Vi è mai capitato? Di conoscere una persona e sentirvi, immediatamente, a vostro agio.
Di conversare (e quindi non di assistere a un monologo interminabile o di fare una conferenza fiume voi stessi) amabilmente, di sentire una sensazione dolce e tranquillizzante di appagamento?
 
E' supefacente, in un mondo di primedonne egocentriche, in cui tutto è apparenza e contorno, sentirsi così pacificati, giusti al posto giusto, opportuni al momento opportuno, apprezzati senza se e senza ma. La sensazione predominante è calore, un calore avvolgente e speranzoso, trasparente e quasi liquido.
 
Grazie, per questo confortante attenzione, grazie per avermi fatto sentire importante e, in particolare, grazie per avermi ascoltata e per aver confortato il mio piccolo ego.
 
E' bello come tornare a casa (non necessariamente questa).

sabato 3 agosto 2013

Japan dream




Per i nostri genitori il "viaggio" per eccellenza è sempre stato l'America (per mio nonno l'Australia, ma si sa, in famiglia siamo un po' particolari). Il sogno americano è stato croce e delizia dei nostri padri. Io, reduce da quattro anni di Stati Uniti, grazie al supereuro, mi sono chiesta cosa davvero significasse per me il viaggio, in senso assoluto.
La mia risposta è Giappone.
 
Cresciuta a Buondì, sofficini e visioni manga del Monte Fuji, ho sempre desiderato andare in Giappone.
 
Tokyo, però, mi sembrava la luna, quando, qualche anno fa, ho visitato il Museo Van Gogh ad Amsterdam e pensavo a quei girasoli volati n Giappone. Sì, prima o poi ci andrò... ma non ci credevo.
E ora, invece, sto per partire per Tokyo prima tappa di un tour fai-da-te.
Non mi sembra vero, eppure ho tutto in mano.
Mi sembra ambizioso, un po' folle, un progetto esagerato, in cui, davvero, stavolta ho alzato il tiro.
 
Cosa mi aspetto dal Giappone?
 
Di uscire, per un po' di tempo, da me stessa e immergermi in un'altra realtà, assolutamente diversa, assolutamente lontana, assolutamente fantastica.
Di capire, anche, questo Paese tanto diverso, e un pochino meglio anche me. Sto studiando da tempo, tra l'altro, e spero di aver fatto bene.
 
Per cui parto, verso questa nuova prova. E sapete bene quanto mi piaccia mettermi alla prova :-)
 
P.S.: gli altri posti che vorrei tanto vedere sono le cascate di Iguazù, la Patagonia e, ovviamente, l'Australia....
 
 

giovedì 1 agosto 2013

Déjeuner du matin - Prévert 1946

Per me una delle più belle poesie d'amore, anzi, sulla fine di un amore. Eterna. La traduzione non rende la musicalità del francese.


Il a mis le café
Dans la tasse
Il a mis le lait
Dans la tasse de café
Il a mis le sucre
Dans le café au lait
Avec la petite cuiller
Il a tourné
Il a bu le café au lait
Et il a reposé la tasse
Sans me parler
Il a allumé
Une cigarette
Il a fait des ronds
Avec la fumée
Il a mis les cendres
Dans le cendrier
Sans me parler
Sans me regarder
Il s’est levé
Il a mis
Son chapeau sur sa tête
Il a mis
Son manteau de pluie
Parce qu’il pleuvait
Et il est parti
Sous la pluie
Sans une parole
Sans me regarder
Et moi j’ai pris
Ma tête dans ma main
Et j’ai pleuré.




Una stanza tutta per me

Ammaccata dai recenti sberleffi altrui, prosciugata da mesi di sofferenze lavorative, mi sono sentita come intossicata dalla fretta, dal nulla, dalla gente inutile.
 
L'unico modo per tornare a respirare è quello di dedicarsi del tempo, al riparo dalla banalità del quotidiano.
 
E' un caldissimo martedì di fine luglio, a Milano.
Approdo determinata e leggera in Piazza Duomo.
I turisti sono tutto sommato pochi, pochissimi e affranti dal calore umido feroce, sopportabile solo dagli autoctoni. Nella piazza assolata mi concedo una bella Coca Light (per la cronaca, non ne bevo da due giorni).
 
Mi dirigo verso il museo del Novecento, dove punto diretta all'esposizione gratuita di alcune riproduzioni di Warhol. Nell'androne semideserto, mi muovo a passi felpati. Nessuno intorno a me, tranne qualche sparuto turista. E così posso apprezzare il vuoto, il bianco e la distanza intorno a me.
Senza parlare, con un tempo intorno che scorre quasi liquido, mi godo questo museo, la cui parte migliore resta senza dubbio la struttura architettonica.
Girello, ritorno sui miei passi, nel pomeriggio deserto.
 
Fuori il Duomo, di un candore quasi bruciante sotto il sole cocente.
Lo osservo attraverso le vetrate, e mi avvicino all'uscita.
 
Improvvisamente un colpo di testa: Modigliani. A passi veloci mi dirigo verso Palazzo Reale e mi dico, o adesso o mai più.
Noto, all'ingresso, soprattutto l'assenza dei vari questuanti. Il caldo deve aver spazzato via anche loro.
 
Anche qui c'è pochissima gente, sono sola a salire lo scalone, sola a fare il biglietto.
Passo tutto il tempo che voglio, tutto quello che posso, dopo essermi tolta l'orologio.
 
Mi siedo nelle stanze vuote, solo io e i ritratti di Modì, solo io che mi perdo nei loro occhi vuoti, scivolo nei misteri dell'inconscio. Posso vedermi con gli occhi della mente, seduta al centro della stanza vuota, il mio profilo si staglia nel bianco della stanza, acquisisce forma nella penombra. Sento gli sguardi diretti dei quadri intorno a me.
 
Mi alzo e cammino in tondo, leggo le didascalie con calma e senza interruzioni.
Mi soffermo su quello che mi colpisce, e anche su quello che non conosco.
 
Prima di uscire mi siedo ancora una volta.
E fissando il vuoto degli occhi delle modelle capisco che ho bisogno di calma, di vuoto, e, in particolare, di ordinato orgoglio.
 
Nel caldo torrido, sotto i raggi implacabili del sole risplende, ritagliato, in un angolo di cielo blu infinito, il campanile della chiesa dietro il Duomo. Un francobollo, che si staglia abbagliante, bianco e rosso nell'azzurro.
Il cortile vuoto, l'aria sospesa che circonda i miei passi. Alzo il capo, mi fermo, e so che potrei fare qualunque cosa, qualunque, ora, in questa solitudine estrema.
Ma quest'aria limpida e immobile, questo pezzo di cielo, questo silenzio assoluto, mi fanno pensare all'esigenza di essere amati. Assolutamente amati, senza spiegazioni, senza condizioni, senza ansie.
In questo momento perfetto anche il mio desiderio è limpido e tranquillo, pulito e reale, costante e mi accompagna per giorni.
 
 




Le difficoltà di creare un mondo nuovo

O meglio, di un nuovo modo di vedere e vivere il mondo.
 
La mia generazione, quella degli "enta" per intenderci, ha studiato negli anni della grande ubriacatura economica, o meglio, della grande menzogna economica, quella in cui la carta e il virtuale hanno sostituito il reale e, nella maggior parte dei casi, il lavoro vero e proprio.
Virtuale il lavoro, virtuale il denaro, meno virtuale il fallimento, chiarissimo in questa grave crisi, di un modello basato su arroganza e supponenza, in cui l'aggressività l'ha fatta da padrone.
 
Siamo stati forgiati da gente, per altro inammovibile, che non si è trovata a faticare per nulla, saturando posti e professioni. Figli di una generazione che invece tanto aveva faticato per sopravvivere e che tanto, in molti casi, ha viziato la successiva.
Abbiamo avuto questi cinquantenni rapaci come esempio, di un mondo professionale di cui hanno esasperato apparenza e pratiche barocche, costruendo un sistema (pensiamo alla follia, per esempio, di passare ore e ore a fare nulla, a presenziare soltanto in ufficio, a scaldare la sedia. Presenziare è diventato sinonimo di lavorare...) contro le persone, e non a loro favore. Pensiamo ai progressi della tecnologia che hanno fatto lievitare il lavoro, invece di semplificarlo e abbreviarlo.
 
Questa grande crisi ha spazzato via molte cose, e purtroppo ancora non questa gentaglia senza etica e senza morale.
Ma tutti quelli della mia generazione, al lavoro in condizioni disagiate e in posizioni sotto stimolanti, sono in bilico tra l'esigenza di cercare strade nuove e quella di mantenere il vecchio percorso mentale appreso in tanti anni di lavaggi del cervello.
 
Chi ha studiato economia lo sa benissimo, ti fanno credere che spaccherai il mondo, e come no, con quelle quattro nozioni...
 
E' difficile e doloroso questo percorso fatto di incertezze, senza una strada un modo di vivere, di ragionare e di agire predeterminato.
Siamo chiamati a forza a trovare nuove strade e a combattere quelle vecchie per riscoprire un nuovo modo di vivere il lavoro, che, attenzione, non è vita.
Solo chi salva delle vite ha una missione.
Chi certifica i bilanci ha un lavoro soltanto, che gli piaccia o meno.
 
Proprio nel momento in cui tutto vale poco e le persone ancora meno, in cui tutto è scontato e i valori e i diritti sembrano messi in discussione, si tratta di ripartire da capo, di ripensare tutto il meccanismo. E come sempre sono le donne, più fragili e più forti insieme, a fare da apripista.
 
Per fare questo è necessario disintossicarsi, innanzitutto, e nel profondo da tutte le bugie che ci hanno raccontato.
 
Per questo tanti di noi si sentono inadeguati a quello che fanno, tra compressioni e divieti.
Il vero orrore è che ci hanno creato un mondo senza rispetto per la vita, in cui si parla di persone in termini di "serve/non serve".
 
Il dolore e il disagio sono l'altra faccia del coraggio, con i suoi dubbi e le sue incertezze, la solitudine la sua condanna.
 
C'è la strada, ma non c'è la meta, ed è questo a spaventarci.