Le amicizie naufragate. Legami lunghi, intensi e importanti che, per motivi più o meno gravi, più o meno chiari, si sono interrotte. Si può riportarle in vita? Come, a che prezzo e soprattutto perché?
Me lo chiedo con insistenza, costretta a ricondurre il mio pensiero necessariamente alla dimensione soggettiva, non avendone un'altra. Mi riferisco a Sara, in particolare, ripresentatasi sul binario 5 della stazione dei treni di Mortara e lì lasciata.
Per me è stata la sorella che non ho mai avuto (oltre che sul nome i miei hanno risparmiato sul numero dei figli e su infinite piccole e grandi cose). Abbiamo passato tanti anni a scuola insieme, condiviso moltissime cose piccole e grandi.
Finché forse non sono diventate troppo grandi. Quando la morte di mio papà ha attraversato il mio presente come un tsunami e ha ipotecato seriamente il mio futuro, mi sono trovata a 18 anni a far fronte a una madre depressa, una nonna impazzita, l'impossibilità di tirare a fine mese, una serie di avvoltoi desiderosi di mettere le mani su quel poco che era rimasto, e a frequentare INPS, commercialisti, notai, avvocati. Intanto preparare la maturità, così, nei ritagli di tempo.
E non c'era nessuno che potesse aiutarmi, sostenermi, anche perché in quel momento ne avrei avuto bisogno davvero e purtroppo mia mamma (sempre eternamente depressa) aveva sospeso i rapporti con Margherita.
E mentre cercavo dolorosamente e faticosamente di sbrogliare i nodi della mia esistenza, anche contro quello che voleva mia mamma, per esempio, che sognava per me un futuro da ingegnere (per me poi... mah) lei si è piano piano allontanata preferendo altre compagnie.
Sono consapevole della difficoltà di comprendere le grandi tragedie personali altrui, tra cui quella di non sapere che fare della propria vita. Ma ho anche colto una certa propensione, come dire, a far piazza pulita delle frequentazioni ogni qual volta c'era un cambio di scuola o di vita.
Ammetto di non essere stata il massimo dell'allegria, di essermi presentata così com'ero, senza soluzioni, piuttosto noiosa e, talvolta, in difficoltà di comunicazione di qualcosa che, pensate, ci ho messo anni a comunicare perfino a me stessa! Però mi sono sempre sforzata, di essere presente, di ascoltare, anche quando avevo problemi di concentrazione, di leggere, in qualche modo di esserci.
Ho vissuto male l'interruzione dei rapporti, come fosse un'abbandono in piena regola.
Ho commentato in passato che questa cosa mi è costata come un divorzio.
Ci ho messo anni a ricomporre la mia esistenza prevedendo una mancanza invece di un'importante presenza. La mia innata riservatezza si è trasformata in una tendenza alla distanza, una distanza sofferta e preoccupata, motivata dal costante timore del ripetersi dell'abbandono (una serie di abbandoni, no e fallimenti a catena non fa bene a nessuno). Se ha deciso di troncare i rapporti qualcuno che sa tutto di me - e viceversa - la probabilità che accada di nuovo è alta, anzi, più alta, dato che la mia convinzione ruota intorno al fatto che solo conoscendomi mi si può apprezzare.
Questo innato tenere le distanze emotive, che combatto ogni giorno faticosamente, nasce da lì.
E, fresca fresca, me la trovo sul binario 5 del treno per Milano, travestita da figlia dei fiori, mentre si stava recando a qualche opera di volontariato no profit (settore per cui alla fine lavoro anch'io, ma in tailleur), che mi squadra e attacca discorso sbirciando l'anulare della mia mano sinistra.
Io che sono diventata un essere sociale ma non socievole rispondo amabilmente. Subito decido però di non riprendere i rapporti.
Perchè?
Non si tratta di orgoglio miope, di insensata sostenutezza. Il nocciolo della questione è: mentre tutto questo succedeva e tutto il resto no, tu dov'eri? Non c'eri, per lo meno, dov'ero io, e non ci sei dove sono arrivata. Se in tutto questo tempo sono diventata solo un fenomeno da pettegolezzo, facciamo questo pettegolezzo e leviamoci il pensiero. Ma poi basta, è chiaro.
Un linguaggio comune si costruisce su basi comuni, che prevedono tempo e impegno, comunanza di cose piccole e grandi. E visione comune, che cresce nel tempo.
Ecco, ho cambiato gli occhiali, nel frattempo.
Mi affeziono alle mie cose ma dieci anni per un paio di occhiali bastano e avanzano.
Per cui, non sentendomi obbligata prima di tutto verso me stessa, rimetto la proposta.
Mi sgancio, in poche parole, e senza possibilità di ritorno.
E non c'era nessuno che potesse aiutarmi, sostenermi, anche perché in quel momento ne avrei avuto bisogno davvero e purtroppo mia mamma (sempre eternamente depressa) aveva sospeso i rapporti con Margherita.
E mentre cercavo dolorosamente e faticosamente di sbrogliare i nodi della mia esistenza, anche contro quello che voleva mia mamma, per esempio, che sognava per me un futuro da ingegnere (per me poi... mah) lei si è piano piano allontanata preferendo altre compagnie.
Sono consapevole della difficoltà di comprendere le grandi tragedie personali altrui, tra cui quella di non sapere che fare della propria vita. Ma ho anche colto una certa propensione, come dire, a far piazza pulita delle frequentazioni ogni qual volta c'era un cambio di scuola o di vita.
Ammetto di non essere stata il massimo dell'allegria, di essermi presentata così com'ero, senza soluzioni, piuttosto noiosa e, talvolta, in difficoltà di comunicazione di qualcosa che, pensate, ci ho messo anni a comunicare perfino a me stessa! Però mi sono sempre sforzata, di essere presente, di ascoltare, anche quando avevo problemi di concentrazione, di leggere, in qualche modo di esserci.
Ho vissuto male l'interruzione dei rapporti, come fosse un'abbandono in piena regola.
Ho commentato in passato che questa cosa mi è costata come un divorzio.
Ci ho messo anni a ricomporre la mia esistenza prevedendo una mancanza invece di un'importante presenza. La mia innata riservatezza si è trasformata in una tendenza alla distanza, una distanza sofferta e preoccupata, motivata dal costante timore del ripetersi dell'abbandono (una serie di abbandoni, no e fallimenti a catena non fa bene a nessuno). Se ha deciso di troncare i rapporti qualcuno che sa tutto di me - e viceversa - la probabilità che accada di nuovo è alta, anzi, più alta, dato che la mia convinzione ruota intorno al fatto che solo conoscendomi mi si può apprezzare.
Questo innato tenere le distanze emotive, che combatto ogni giorno faticosamente, nasce da lì.
E, fresca fresca, me la trovo sul binario 5 del treno per Milano, travestita da figlia dei fiori, mentre si stava recando a qualche opera di volontariato no profit (settore per cui alla fine lavoro anch'io, ma in tailleur), che mi squadra e attacca discorso sbirciando l'anulare della mia mano sinistra.
Io che sono diventata un essere sociale ma non socievole rispondo amabilmente. Subito decido però di non riprendere i rapporti.
Perchè?
Non si tratta di orgoglio miope, di insensata sostenutezza. Il nocciolo della questione è: mentre tutto questo succedeva e tutto il resto no, tu dov'eri? Non c'eri, per lo meno, dov'ero io, e non ci sei dove sono arrivata. Se in tutto questo tempo sono diventata solo un fenomeno da pettegolezzo, facciamo questo pettegolezzo e leviamoci il pensiero. Ma poi basta, è chiaro.
Un linguaggio comune si costruisce su basi comuni, che prevedono tempo e impegno, comunanza di cose piccole e grandi. E visione comune, che cresce nel tempo.
Ecco, ho cambiato gli occhiali, nel frattempo.
Mi affeziono alle mie cose ma dieci anni per un paio di occhiali bastano e avanzano.
Per cui, non sentendomi obbligata prima di tutto verso me stessa, rimetto la proposta.
Mi sgancio, in poche parole, e senza possibilità di ritorno.
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