Durante il mio corso ho conosciuto diverse persone (sono l'unica ad avere un'occupazione). Tra queste Giada, una ragazza giovane e molto carina. All'inizio non ci si conosce e quindi non si parla, poi, piano piano, qualcosa filtra.
Ecco che non succede solo nella disastratissima Grecia, ma anche da noi. Da 5 mesi lei non percepisce lo stipendio, lavorando in un negozio di abbigliamento e calzature. Dopo una gita all'INPS ha scoperto che da 2 anni non le vengono pagati i contributi. E così pure ai suoi colleghi.
Eppure, ogni giorno, lei va a lavorare e così gli altri.
La nostra consulente l'ha invitata a presentare le dimissioni per giusta causa (possibile quando non si percepisce lo stipendio da tre mesi). Che differenza fa? Quando non viene pagato lo stipendio ai dipendenti la situazione è decisamente grave e, per la sue esperienza, è difficile che ci siano inversioni di tendenza positive. Insomma, si è alla frutta, per farla breve.
E allora cosa spinge una ragazza a tirarsi su tutte le mattine per andare al lavoro per... nulla?
E lei dice, vorrete mica che stia a casa?
Perché questo è il timore di tanti lavoratori gratis o quasi: manifestare chiaramente lo stato di disoccupazione attraverso la nullafacenza. Non avere quell'insieme di impegni quotidiani che costringono ad avere una vita ordinata, ad alzarsi, prepararsi, e mostrare a se stessi e alla gente la propria occupazione.
Insomma, il lavoro perde della sua funzione unica, ovvero sostentarsi e assume solo la dimensione sociale del fenomeno, cioè l'esibizione della routine lavorativa.
La grande paura non è solo trovarsi senza lavoro in un periodo in cui chi non lavora non riesce a trovare un'altra occupazione, ma quella di vedere se stessi, inequivocabilmente, a spasso.
Come se fosse franare tra le tenebre della disoccupazione e perdere se stessi senza possibilità di ritorno.
Una netta linea di demarcazione separa chi sta a galla e chi sta sott'acqua, chi lavora e chi no.
E passarla, anche psicologicamente, è dura. Al punto di preferire lavorare gratis....
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