sabato 31 maggio 2014

Biondo... paglia!

- Non devi più farti quel colore di capelli, non ti sta bene, è troppo giallo.-.
 
Come sempre mia madre brontola, nel momento meno opportuno, ovvero al termine della cena del sabato, per analizzare il mio nuovo colore di capelli.
 
Il copione è sempre lo stesso: finge di osservarmi da lontano con aria seria (miope o daltonica?) e poi, con la stessa delicatezza con cui un operaio incaricato delle demolizioni prende a mazzate un muro, ti spara il consueto complimento.
 
Stavolta sono i capelli, ma potrebbe essere la lunghezza della gonna, oppure la scollatura, o, magari il tacco della scarpa che ho ai piedi.
 
Oggi, al mercato, ho visto due signore, madre e figlia una sui settanta e una sui cinquanta, in forma e ben curate senza essere eccessive. La madre si entusiasmava per un abito e a me, osservandole, è venuto da pensare: - Perché mia madre non è così?-.
 
Intendo dire, perché mia madre non ama vestirsi in modo elegante (o anche soltanto accettabilmente femminile), perché non si trucca, non si pettina, non si mette mai né un ornamento, né un po' di profumo?
 
E, il "bello" consiste nel fatto che, questa persona disinteressata da sempre nei confronti del suo aspetto, che non esce mai, si ostina a stracciarmi le vesti mediante consigli di stile.
 
Che io incasso come sempre con incredibile buona grazia.
 
Beh, certo, con la mia miglior buona grazia.
Stasera le ho detto che ho raccolto pareri contrastanti, c'è a chi piace e a chi no. Io stessa non ho ancora maturato un giudizio definitivo in materia, il che è vero.
 
E, ho sottolineato, il mio è l'unico che conta per me.
 
E' davvero difficile far evolvere i rapporti tra genitori e figli, soprattutto quando i genitori tendono ad "allargarsi" un po' troppo e a disporre dei figli come di una loro appendice.
Una vera lotta quotidiana, di cui non si vede la fine...

L'amicizia con se stessi

Il titolo dell'ebook è senza dubbio accattivante.
 
Nella noia pomeridiana che avvolge il mio ufficio mi concedo una digressione su Amazon (quanti danni ha fatto quel sito...) e trovo questo libro, a pochissimo prezzo, che promette una trattazione filosofica accessibile anche agli ignoranti (come me) relativa al concetto di amicizia verso se stessi.
 
Che, attenzione, non è egoismo e neppure una visione edulcorata del "conoscere se stessi", ma, mi è parso di capire, si tratta della ripresa di un'idea tanto cara, ad esempio, ai pensatori latini.
 
Questa "amicizia verso di me" è senz'ombra di dubbio quanto più mi serve in questo momento. Ricercare quello che davvero mi fa bene e mi conduce al rispetto di me stessa è la miglior cosa che posso fare, ma è tutt'altro che semplice.
 
La cosa più difficile è neutralizzare le influenze esterne e le richieste pressanti che mi vengono dall'esterno. La colpa è di certo anche mia, sempre impegnata ad accondiscendere e a cedere terreno "per il bene comune" fino a smarrire pezzi di me stessa.
 
E io chi sono poi, mi sono trovata a chiedermi spesso.
Sì, mi trovo impregnata  di una serie di valori che mi derivano dalla mia famiglia, soprattutto da mia madre, dalla sua personalità autoritaria più che forte e terribilmente attaccata a quelle due/tre certezze che ha portato all'assoluto.
 
Una rigidità che deriva dall'instabilità e dalla paura che, alla fine, risulta soffocante.
 
Fatto salvo, nel bene e nel male, tutto il bagaglio familiare che mi porto appresso, al di là di quello, io chi sono? I miei giudizi, le mie idee, le mie priorità, i miei interessi, senza il condizionamento familiare, quali sono?
 
C'è un momento, e forse il concetto di crisi può riassumersi in questo, in cui tutte le risposte e le soluzioni che la tua famiglia e il tuo gruppo di riferimento sociale ti possono dare non ti aiutano a superare i tuoi problemi. E sei costretto in prima persona a rimetterli in discussione e a cercare una nuova "ricetta di vita" (il trovarla è poi un altro paio di maniche).
 
Certamente la lettura non mi illuminerà, ma spero di trovare qualche spunto interessante.
 

domenica 25 maggio 2014

Bridget a lezione di pilates

E' tanto di moda, da qualche anno, questo pilates, da indurmi, con i consueto snobismo, a girare alla larga. Tuttavia, da quando, quest'anno, ho deciso di rimettermi in forma e arginare la decadenza fisica incipiente, mi sono ricordata che il fisioterapista mi aveva consigliato di praticare una disciplina simile allo yoga.
 
E così ho deciso di acchiappare al volo l'invito speditomi da una ex collega, che mi ha segnalato questo minicorso di pilates in una scuola di arti orientali relativamente vicina all'ufficio in uno dei pochi giorni alla settimana in cui la mia pausa pranzo non è ridotta a una minima interruzione, ben inferiore alla mezz'ora, a causa della maleducazione del mio prossimo.
 
Raggiungo il posto, al piano rialzato di un condominio nuovissimo e all'apparenza lussuoso, che spicca in mezzo ai fatiscenti palazzi popolare "vecchia Milano" della zona. Per fortuna sulle finestre hanno apposto delle decalcomanie, perché sul comunicato era riportato un civico sbagliato.
 
L'ambiente è nuovo, non molto grande, ma luminoso e accogliente, in cui predominano i colori chiari.
 
L'insegnante ha più o meno la mia età, sembra gentile anche se non molto espansiva. Ha esattamente il fisico che io vorrei avere e che ho avuto in passato. Flessibile e asciutta. Insomma, il fisico che avevo anni fa, prima di rovinarmelo con tutta questa incuria.
 
Scopro dopo pochi minuti che è assai difficile.
Paradossalmente è per me più semplice saltare per un'ora di ballo scatenato che non mantenere un controllo ferreo su postura e respirazione.
E, altrettanto velocemente, scopro che questa disciplina richiede la tua presenza fisica e mentale. In altre parole, devi essere assolutamente presente a te stessa, un cosa complicatissima per una come me, sempre con la testa "altrove" e "avanti".
 
Eccomi quindi a toccare con mano quanto scarsa sia la consapevolezza del mio corpo.
 
Siamo in quattro allievi e io sono la più giovane, e anche, mi duole dirlo, quella messa fisicamente peggio. Insomma, la più grassa e la più rigida. La migliore è una signora che ha l'età di mia mamma, la quale riesce a fare piuttosto agevolmente tutti gli esercizi proposti o quasi. Io, invece, che fino a poco tempo fa ero tanto flessibile da riuscire a toccare con la faccia per terra a gambe divaricate, adesso sono ingombrata da una pancia e, soprattutto, da un addome ingombrante che mi rende difficoltoso quasi ogni esercizio.
 
Contrariamente alla palestra, dove ci ammazzavano di ripetizioni, qui no, gli esercizi sono simili, ma vengono ripetuti con una lentezza spasmodica.
Provate voi a fare gli addominali al rallentatore....
 
Rientro di corsa in ufficio, "grazie" al mio orario rigido e mi sento, davvero, un'altra persona: per un'ora la mia mente si è riposata dai soliti pensieri ossessivi. Grazie agli esercizi di respirazione sono molto più rilassata e serena. Mi sento come una che... ha ritrovato diverse vertebre che aveva perso per strada!
 
Continuerò dopo le cinque lezioni?
Ancora non lo so, forse preferirei trovare un corso ad orari più consoni ma vicino a casa.
 
Insomma, se anche quest'anno la prova bikini mi vede come sempre molto impreparata, continuo a cercare di riacchiappare almeno un pezzettino della forma fisica perduta e, potendo, di quella mentale.
 

martedì 20 maggio 2014

Fame di tempo

E' ancora un volta martedì, e i giorni mi sembrano rotolare isterici uno dietro l'altro, senza sosta.
Mi sento maldisposta verso l'universo mondo e il fingere la consueta cortesia mi costa più del solito.
 
Un senso di fastidio mi attanaglia, mentre mi pare che ogni gesto mi porti via tempo, tempo prezioso.
Mi stanca il viaggio, mi stancano gli impegni della giornata, e mi stanca, in particolare, trovarmi, ancora, sempre, chiusa in questa stanza con le stesse persone.
 
Nulla, o meglio, non troppo di personale contro queste persone, ma il desiderio di novità è forte.
Il desiderio di uscire, che è la stessa cosa dellì'istinto primario che ci fa respirare.
 
Ne ho abbastanza, e questa è la verità, di persone mediocri, cui mi adatto tutti i giorni.
 
Il dilemma di oggi ruota intorno a quanto di mediocre ti lasciano addosso le persone mediocri.
Mediocri nell'intelletto, mediocri nellì'ingegno, oltremodo noiose e senza la buona grazia che conferisce la bontà d'animo.
 
E mi accorgo, spesso, di indossare a mia volta una maschera a buon mercato per adeguarmi al livello di questi soggetti. Ogni giorno perdo un pezzettino di me.
 
E se smettessi, mi dico?
Se, tanto per cominciare, smettessi di sentirmi in dovere di fare molte cose non necessarie?
Di frequentare queste persone "povere" in una versione tristemente "povera" di me stessa?
 
Spesso, mentre torno a casa la sera, mi sorprendo del fatto che la giornata sia già quasi finita.
E sento il bisogno di "vita", della mia parte di esistenza gratificante e arricchente.
 
Desiderare solo che la sera arrivi presto per lasciarsi alle spalle la giornata, è quanto di più ci avvicina alla morte in vita.
 
 
 

lunedì 19 maggio 2014

S come stordita

Sono arrivata in trance in stazione, ancora avvolta dagli angoscianti sogni notturni.
La Yaris non ne voleva sapere di partire, e mi abbandonava miseramente per strada tossendo come e peggio di Violetta. Quando stamattina si è messa in moto al primo colpo mi sono stupita io stessa avendo ancora difficoltà a distinguere tra realtà e sogno.
 
Dopo aver controllato tre (e dicesi tre) volte di aver messo le chiavi di casa nella borsetta e di non averle lasciate sul sedile, scendo dall'auto.
Faccio una ventina di passi e poi, come al solito, mi volto.
Con uno sguardo puntuto che manco un'aquila squadro la Yaris: ho spento le luci? Pare di sì. Ho chiuso la porta? Pare di sì, penso mentre agito il telecomando della chiave modello rabdomante fino a farla scattare. E il permesso?
Vedo una macchia gialla canarino sul parabrezza, che manco un daltonico potrebbe non notare. C'è.
 
Consapevole di essere distratta/stanca/addormentata spio ogni mio movimento e ogni azione, circospetta, sempre in ansia, temendo di perdermi qualcosa per strada.
 
Il treno arriva, io ci salgo e, dopo essermi accomodata,  inizio il consueto rituale di controllo dei miei beni mobili e immobili quotidiani.
Chiavi casa, prima tasca, ok.
Chiavi auto, tasca due, ok.
 
Abbonamento treno, taschina uno, ok.
Badge, taschina uno, ok.
 
Ed è in quel momento che mi rendo conto del fatto che non ho con me né il Kindle, né cavetto e cuffie per il mio iPhone. E, ciliegina sulla torta, ho il cellulare semi scarico.
 
Posso solo sperare di non averne bisogno...
 
Tutta colpa della mia ansia riordinatrice: ho ficcato tutto nel cassetto, e lì è rimasto (mai cambiare borsa e mai cambiarne il contenuto, questo il primo comandamento della distratta). Ergo, mentre sms e chat piovono senza tregua, io sono costretta a un mutismo senza fine.
 
Niente musica in metro e addio, per oggi, al mio libro di psicanalisi spicciola che dovrebbe rivelarmi le psicopatologie del mio cuore.
 
Che barba gente, mi toccherà... oziare! al ritorno. E questa idea mi angoscia assai, ma mai quanto la possibilità che il treno mi molli a piedi.
 
Ecco, mi sono appena accorta di aver mangiato l'ultima caramella,
Cavolo, vedi cosa succede quando non si controlla abbastanza?
 
Uscire tutti i giorni è come affrontare una trasferta: bisogna andarci armati, oltre che di pazienza anche di... tecnologia (e viveri e acqua e golfini, non si sa mai).
 
Ecco, mi tempesterò di post-it per ricordarmi di recuperare la mia quotidiana dose di elettronica a uso privatistico... sperando di non perderli, dato che ormai sono abituata ai post virtuali...
 
 
 

domenica 18 maggio 2014

A come ansia

Ho esattamente due ore scarse per: mettermi lo smalto sulle unghie, lavarmi i capelli, truccarmi, preparare la borsa per la palestra, fare un ordine sul sito di Dorothy Perkins altrimenti scade la promozione del 25%, preparare i vestiti per domani, rileggere il mio lavoro di venerdì e... varie ed eventuali.
 
E' domenica dopo pranzo, pranzo che ho preparato anticipando l'anticipabile a ieri, e programmando pasti da asporto fino a mercoledì, con una sensata gestione degli avanzi. I piatti sono in lavastoviglie, il letto fatto. Un robusto mal di testa sta facendo inesorabilmente capolino dalla parte destra del mio emisfero cerebrale, mentre in punta di pennello sto stendendo uno smalto di dubbia qualità.
 
Spero solo che non si trasformi in emicrania.
Accidenti, non ho messo l'olio nutriente sui capelli per sfruttare al massimo ogni nanosecondo.
 
Mi sono svegliata pensando alla settimana che mi aspetta: una serie di riunioni, domani zumba, giovedì questa nuova esperienza di pilates, martedì cena a casa di Lilli (non posso più rimandare), e devo anche incastrarmi un ceretta...le vacanze incombenti...
 
Altro che entusiasmo per le cose nuove, a dominare le mie giornate è il fiato corto e l'ansia.
Sono sempre di fretta, nel fare le cose che devo e anche quelle, diciamo, non obbligatorie.
 
Tra cose che scordo, che mi cadono, che si rompono, che non trovo, l'unico mio desiderio è quello, indistintamente, di "mandare" tutto il resto del mondo dove dovrebbe.
 
E mi sembra, talvolta, che basterebbe solo vivere in modo diverso gli avvenimenti e gli impegni senza farsene travolgere.
Insomma, fare le cose e basta.
 
Ma la mia testa è sempre oltre, sempre in corsa verso la/le nuove mete.
 
Mentre mi accorgo di essere nervosa/incavolata sette giorni su sette, mi rendo anche conto che le mani mi tremano, che ho sempre mal di schiena e che non sono mai realmente concentrata su nulla e su nessuno.
 
E così tutto diventa un impegno, una cosa, compresi gli incontri con gli amici, da incastrare faticosamente in giornate troppo piene.
Troppo piene dal lavoro, ecco, che vampirizza la maggior parte delle mie risorse emotive.
 
Così sono entrata nella spirale dell'ansia, che ben si accompagna a un eccesso di rigidità negli impegni.
 
Elenchi puntati, agende, programmazione, nulla vale a bloccarla.
 
Neppure il constatare che, alla fine le cose le faccio e fino a oggi non c'è stato alcun cataclisma.
Almeno fino ad ora.
 
Voi mi direte che rinunciare a qualcosa può essere una efficace strategia per allentare la tensione. Invece, il saltare qualche sessione in palestra, per esempio, non fa che aumentare il senso di oppressione che mi attanaglia a livello esofago.
 
Per non parlare del rinunciare a qualche incontro: mi pare che tutta la mia vita ruoti intorno a un lavoro insoddisfacente in un ambiente poco stimolante.
Passi l'affetto per qualcuno, ma, davvero, il livello della maggior parte della gente è assai basso.
Il senso del dovere non spunta le armi all'inconscio...
 
Quello che mi manca, ora, è il tempo di scrivere.
Il tempo di scrivere qui sopra anche, la mia valvola di sfogo, diciamo pure quello che mi ha tenuto in piedi fino a ora. Questi impegni lavorativi sempre più ingombranti, che mi sottraggono tempo ed energie sono la causa del mio rallentamento nella scrittura.
 
Per occuparmi di altro, insomma, ho smesso di occuparmi di me, alla fin fine.
E il conto che mi viene presentato è questo: sono ansiosa,  mi pare che i giorni, le settimane, i mesi scivolino via senza tregua e senza risultato.
Questo perché non ho tempo e modo di rielaborarli e di dedicare al mio vissuto il tempo che merita, per viverlo prima e per capirlo dopo.
 
 
 
 
 
 
 

domenica 11 maggio 2014

A questo bivio scelgo di abbandonare la strada dell'ombra e di slanciarmi verso la luce.

Il viaggio di Ciccio

Come i bambini, prima di partire il Ciccio nazionale è esagitato.
Si muove e parla senza sosta e senza ritegno.
Se i lupi ululano alla luna, lui gracchia scemenze affibbiando a tutti lavori inutili per placare la sua ansia.
 
Che abbia paura dell'aereo, mi sono chiesta più volte.
Solo così si spiegherebbero le irruzioni continue modello valanga nel nostro ufficio: rotola sbuffando e grugnendo, varcando la soglia del nostro ufficio dopo aver tentato di scardinare la porta. Si gira di scatto a destra e a sinistra come a voler controllare se ci siamo e cosa stiamo facendo.
 
- Non ha proprio niente da fare - mi viene da pensare.
 
Ma oggi Ciccio deve partire per Madrid, un posto in cui, ne sono certa, si mangerà di m....
Giusto per usare il suo eloquio raffinato e forbito.
 
Quando e perché debba andare resta, per noi, un mistero.
Guai a dirci qualcosa che può facilitarci l'esistenza lavorativa.
 
In realtà credo che neppure lui sappia esattamente bene cosa debba andare a fare.
Altrimenti non mi tempesterebbe di mail con l'iPhone, un telefono che è una vera m..., a detta sua, ma che continua a usare per chiedermi la qualunque cosa.
 
Fatto sta che continua a perdere tempo.
Non ce la fa a programmare qualcosa, che sia pure una minima cosa, come prendere un treno.
O muoversi per tempo per prendere un aereo.
 
Cincischia, mangiucchia, si defila lasciando il povero collega compagno di viaggio a rincorrerlo per i corridoi.
Fatto sta che i due partono con un'ora di ritardo sulla tabella di marcia.
 
Prendere un treno?
Sia mai, solo auto, tanto le spese per il parcheggio le paga l'azienda.
Peccato che il percorso prestabilito del treno offre qualche garanzia di arrivare a un'ora precisa, mentre l'auto no.
 
Dopo qualche ora, il nostro eroe chiama la segretaria che ha prenotato il volo.
I due pellegrini sono rimasti a terra, adducendo un fantomatico incidente in autostrada con 10 km di coda. La corsa alla prenotazione del volo successivo è frenetica e li costringe a stare 4 ore in più in aeroporto, oltre che a perdere i soldi del biglietto.
 
Ma, dato che il diavolo fa le pentole e non i coperchi, la verità viene a galla ben presto: già in clamoroso ritardo, il nostro eroe ha perso l'aereo perché... ha parcheggiato al terminal sbagliato.
Vi assicuro che è vero: all'1 invece che al 2, perdendosi poi alla ricerca dell'aereo.
 
Per dirvi con che gente lavoro e per spiegarvi perché alcune aziende non funzionano: se questi sono i dirigenti si può finire solo in un burrone. O, in alternativa, parcheggiati al duty free di Malpensa.
 
 



sabato 10 maggio 2014

Dieci anni di troppo (tubì tubì)

Ho finito di leggere il libro di Neige de Benedetti.
Un libretto furbo, che per essere apprezzato necessita di avere almeno (mentalmente) dieci anni meno di quelli che ho io.
 
Una bambina e una ragazza senza amici, l'ombra dei suicidio, del padre della piccola e che cerca in continuazione la giovane, afflitta da una serie di problemi familiari. Unite una dose misurata di stravaganza artistica, un adeguato sprezzo per il realismo, dei racconti scemi fatti di frasi smozzicate senza né capo né coda, un bel giornalista che cade folgorato dalla tendente al suicidio appena la vede, e una madre scultrice.
E non dimentichiamoci il vivaio magico e il suo proprietario.
 
Mescolate bene e avrete il libro Tubì tubì, che in alcuni passaggi, nonostante abbia qualche spunto interessante, cede paurosamente al moccismo, nel suo aspetto snob, però.
 
Parte bene, con una bambina credibile, e finisce (anche se una fine non c'è) come potrebbero finire le canzoni di Ramazzotti o di Alessandra Amoroso.
 
Insomma, una tipa in gamba questa, che ha scritto un libro di moda per degli adolescenti mentali (l'età non conta) con velleità intellettuali.
 
Molto brava, promossa dalle vendite.  

Modalità octopus

Dieci, se non addirittura dodici, sono le mani che contribuiranno a scrivere il nostro prossimo ebook.
Il corso di scrittura creativa è ricominciato e l'ambizioso obiettivo attuale è quello di scrivere una storia familiare, che parte dalla tremenda consuetudine del pranzo domenicale forzato tutti insieme appassionatamente.
 
Una storia fatta di colpi di scena e di sei personaggi.
Nonno, padre, madre e tre figli adolescenti/tardo adolescenti.
 
Io, per la cronaca, ho scelto di essere il padre. Vediamo come me la cavo in questo ruolo maschile.
A dire il vero, avrei potuto essere tutti, a rotazione, tanta è la curiosità che mi caratterizza.
 
Non sarà semplice realizzare un racconto con così tanti personaggi e renderlo omogeneo.
Devo ammettere, però, che il progetto mi stuzzica, così come tutte le sfide intellettuali.
Un po' meno quelle sportive...

Non vi dico di più.
Ho elaborato un'idea sommaria di chi può essere e come può essere il padre.
Ci ho pensato mentre cucinavo, mentre facevo la tinta a mia madre, mentre ritiravo il bucato...
Mentre facevo la doccia, il mio privilegiato luogo di ispirazione.

E domani... Inizio l'opera.

Dopotutto, se non scrivo, muoio.

mercoledì 7 maggio 2014

Misticismo da Starbucks

L'aria è ancora densa di nebbia, l'umidità mi si disegna addosso mentre avanzo, in religioso silenzio e in deliziosa solitudine. Percorro leggera e grave la stradina sterrata, costeggiata da alberi secolari, che distendono le loro fronde sul mio capo, quasi anticipando la benedizione francescana.
 
E' una prima mattina di maggio, ma sul monte Subasio sembra novembre.
 
Li ho battuti tutti, quei pellegrini vocianti armati di bastoni in ascesa all'Eremo delle carceri, ignari di cosa siano quattro km in salita.
Sono sgusciata via anche dai pullman, con la mia agile piccola Yaris.
 
Eccomi qui, non prima, ma quasi nel luogo che, per me, è il più mistico della zona.
Scivolo veloce tra i cunicoli dell'Eremo. Scendo le scalette, sguscio tra le porte minuscole, in cui solo i bambini e i nani come me possono passare agevolmente.
 
Così, nel silenzio più assoluto, eccomi di fronte al giaciglio del Santo e in preghiera nella minuscola cappelletta comunicante. Forte della mia piccola statura scendo quasi fino alle grotte, per poi risalire, nel bosco silenzioso, imponente, ma amico.
 
Tra la nebbia non cerco né il perdono francescano, né le risposte alle mie molte inquietudini, né altro. L'assoluto silenzio mi tranquillizza, e io mi fermo, guardando di sotto in un attimo irripetibile di pace perfetta, qualcosa di molto vicino, credo, all'illuminazione. In quell'istante so, con assoluta certezza, che questo senso di compiutezza non mi pervaderà ancora facilmente. In quell'istante non desidero, non soffro, non temo, non aspetto, non cerco.
 
Quasi dispersa rientro nella piccola chiesa e, dopo il consueto rito dell'accensione della candela, mi siedo per un ultimo momento di preghiera.
 
Quando, mentre sto seduta sugli scranni secolari, irrompe quella che è, senza ombra di dubbio, una turista americana. Essa porta un cappellino di tela in testa, dei bermuda color corda, delle scarpe da ginnastica massicce, calze di spugna e una bella felpona di colori vivaci. Al collo un paio di macchine fotografiche enormi, e uno zainetto sulle spalle. E non somiglia a Barbie, è poco ma sicuro.
 
Si precipita come una furia in chiesa, avanza a grandi passi (e dopo tre è già fuori dalla chiesa) e scatta una serie di foto nonostante il divieto con un flash che manco alla notte degli Oscar...
 
Dopo aver cercato di infilarsi di sotto, torna indietro e mi si rivolge trillante e travolgente: - Excuse me, bar? Cappuccino? -
 
La guardo attonita. Subito credo di non aver capito, oppure che si tratti di uno scherzo.
La cavallona mi guarda, pensando forse alla solita italiana che non capisce l'inglese (anche se probabilmente lo scrivo più correttamente di lei).
 
E mi ripete il tutto mimando quello che dovrebbe essere una tazza e fa il gesto di bere.
 
Credo che, in quel momento, mi sia caduta la mascella, e che le mani, in grembo mi si siano sciolte all'istante, cadendo lungo i fianchi. Quando ho realizzato che stava cercando il bar e che pensava di trovarlo lì dentro, mi sono depressa.
 
Sono stata tante volte negli Usa e so che, mediamente, loro cercano il folklore e non la conoscenza, salvo rari e selezionati casi.
 
Ma che cercassero un bar in un eremo...
 
Mi sono riavuta temendo che iniziasse di nuovo a starnazzare, e le ho risposto: - Outside, madame, I think. This is a Church, not a shopping center.-
 
Questa è uscita è ha iniziato a strillare :- Outside guys, outside. Is not here.-.
 
In quel momento ho capito che era giunta l'ora di andare.
 
 

martedì 6 maggio 2014

Souvenirs

Ci fronteggiamo guardandoci negli occhi, e, per una volta, io abbasso il mio sguardo verde su un paio di occhi posizionati più in basso dei miei.
 
Sono piccoli, a mandorla e scuri e brillano dello stesso sguardo cupido dello sciacallo che sta puntando la preda.
 
Mancano poche decine di minuti alla chiusura del negozio che, all'interno della basilica di San Francesco di Assisi, vende articoli religiosi.
 
I miei occhi si incagliano dentro il cestino della giapponese che mi sta quasi di fronte: contiene almeno un centinaio di rosari, in tutte le fogge, le forme e i materiali possibili, con e senza scritta "Assisi". Di legno, di plastica, di bachelite, di vetro.
 
Li sta prendendo tutti, affetta da una smania incontrollabile, dalla voracità di un'aspirapolvere da souvenir, come fossero tante collanine folkloristiche.
 
Intorno a noi un'orda che proviene dal Sol Levante sciama furiosa, svuotando con brama vampiresca tutti gli scaffali del negozio.
 
Sono alla mia seconda visita in due giorni alla Basilica, con l'obiettivo di comprare, appunto, un rosario per uso personale. Il giorno prima sono stati i pellegrini polacchi a "fregarmi" sul tempo.
Lo voglio e lo voglio comprare lì e non in un negozio perché voglio benedirlo con l'acqua santa.
 
Con il pensiero anticipo la giapponese leggendole nel pensiero: sta per allungare la mano e prendere l'ultimo rosario sullo scaffale!
 
No, penso rabbrividendo, e adesso? E già mi vedo a comprarne uno a caso in un negozio...
 
Ma anni e anni di scuola nei mercati italiani (e mondiali) a caccia di occasioni, pezzi unici, campioni e chi più ne ha più ne metta lasciano il segno.
Un popolo di santi, navigatori e... fregatori ne sa sempre una più dei disciplinati orientalissimi.
 
Ricorro alla scelta estrema: fisso la tizia negli occhi con uno sguardo, che da verde diventa fosforescente, con aria ipnotica. Lo sguardo, una volta certa di aver catturato il suo, diventa vitreo ed estatico osservando un punto qualsiasi dietro le sue spalle. La quasi ipnotizzata sottoscritta cade in estasi come avesse davanti la madonna. La cacciatrice di souvenir, incuriosita, pernsando a chissà che, si volta e rimane lì a fissare le mosche scrutando per vedere quale meraviglia stessi contemplando.
 
Rapida come una pantera, agguanto l'ultima coroncina e balzo alla cassa a pagare.
 
Quando si volta, perplessa, sto già uscendo dal negozio con il mio borrino.
 
Pantera batte sciacallo 1 a 0.