mercoledì 16 aprile 2014

Grillo, ce n'è per tutti

In una bellissima mattinata primaverile di metà aprile apro il Corriere e trasecolo.
Una sorta di incredula angoscia mi pervade: sono d'accordo con Marine Le Pen.
 
Oddio, penso, sono d'accordo con Marine Le Pen, la quale dice a Otto e mezzo:
 
«Il signor Grillo manca di coerenza nel progetto che propone, si compiace di adottare un comportamento contestatore, scapestrato, senza offrire agli italiani un progetto coerente, ben concepito e approfondito».
 
Leggo queste parole dopo la consueta overdose di attacchi, qualunquizzazioni dei problemi e bestializzazioni di gravi fatti storici dello scorso secolo, e non posso che assentire con la signora Le Pen.
 
E questo è quasi surreale, almeno dal mio punto di vista.
 
Dai discorsi del "comico" esco sempre frastornata, presa in una girandola vorticosa di insulti, critiche, idee demagogiche che non risparmiano nessuno, ma proprio nessuno.
Lanciate come sassi, hanno da stessa profondità di uno spuntacchio.
Buttate lì così, come potrebbe fare, senza tener conto di nulla, il lavavetri all'angolo, che invece di chiedere l''euro ai passanti potrebbe mettersi a urlare: Aboliamo Equitalia.
 
Avrebbe però meno risonanza e credito, e, soprattutto, sarebbe esentato dal porsi il problema fondamentale di chi e come sostituire Equitalia e a che prezzo.
 
Quelle che lui chiama proposte sono solo provocazioni, che si nutrono del disagio che nasce dalla crisi e dal vuoto di valori attuale.
Perché le idee vanno svolte, argomentate, studiate, progettate e non solo lanciate.
 
Siamo tutti e da molto tempo ormai bersagli di questo livore mediatico che si accanisce su tutti coloro che l'ascoltano o lo leggono.
 
Per ora, di risultati concreti mi pare non ce ne siano stati.
 
Forse è venuto il momento di un'interruzione di corrente, che possa concedermi una meritata tregua dopo lo scempio del post su Primo Levi (imperdonabile nel modo più assoluto) e prima che mi trovi ancora d'accordo con Marine Le Pen.
 
 
 

martedì 15 aprile 2014

Pendolaria

Per una miracolosa combinazione di metropolitane, arrivate entrambe quasi incredibilmente proprio mentre scendevo le scale, arrivo quasi con agio sul binario del treno precedente a quello che avevo preventivato di prendere. 

Fortuna vuole che, chiamata la mia amica Antonella, per dirle che sono riuscita ad acchiapparlo contro ogni previsione, vicino a lei ci siano anche due posti liberi, occupati da altre nostre conoscenti e non, come spesso accade, da qualche figuro puzzolente e sporco. 

Partiamo in orario e procediamo senza arenarci per un po'.

Lo sapevo che qualcosa doveva accadere. Non poteva filare tutto così liscio.

E infatti qualcosa accade. 
Ne abbiamo sentore osservando una famiglia di turisti tedeschi, che brandiscono una cartina con l'elenco dei monumenti di un improbabile paese sulla tratta per Milano. 

Abituati a viaggiare su mezzi pubblici certamente più efficienti nella sostanza e più civili nella forma, si allarmano quando un certo odore di bruciato inizia a spandersi nella carrozza. 

Succede spesso, motivo per cui i viaggiatori abituali, il povero popolo pendolare, che ne ha viste e sentite di tutte, non fa una piega, anzi, continua imperterrito a fare quello che faceva prima. 
Conversa, legge, ascolta musica, guarda fuori. 

Li vedo osservarci attoniti, mentre valutano l'ipotesi di essere vittima di una candid camera, ignorando le nostre quotidiane condizioni di viaggio. Dopo qualche minuto iniziamo, però, anche noi, pendolari rotti a ogni disagio, ad avvertire una puzza di bruciato più intensa della consueta, mentre scorgiamo una nuvola di fumo bianco che avvolge la carrozza.

L'odore diventa sempre più insopportabile, mentre ci avviciniamo alla più disgraziata stazione della linea, prima non solo di un collegamento alternativo per ogni dove, ma anche di un qualsiasi essere umano cui chiedere informazioni o aiuto.

Inizia così il fuggi fuggi dei passeggeri, intimoriti dal fumo e dall'odore tremendo. 
Saltano giù dal treno come i topi saltano fuori dalla tana alluvionata.

Ma non si fidano ad allontanarsi troppo dalla porte: stanno in attesa. E' vero che c'è il rischio di un incendio, ma c'è anche il rischio che il treno, come già accaduto in passato, riparta a tradimento, senza alcun annuncio, lasciando tutti sul marciapiede. La disinformazione regna sovrana e già, anche tra noi rimasti a presidiare il treno cominciano a fiorire le leggende metropolitane sulla natura del disguido.

Una frotta di gente inizia a rumoreggiare e, all'annuncio dell'arrivo del treno successivo in stazione, a chiedersi quale dei due partirà per primo, se il nostro è o non è rotto.

E, a questo punto, arriva lui. Il capotreno. Avanza trascinandosi in una divisa enorme, quasi perso nella sua giacca grigia. Somiglia, per dimensioni e prestanza a Ratatouille. Con uno sguardo un po' meno intelligente e brillante, però.

Si avvicina alla nostra carrozza, estrae un aggeggio di ferro e tira di qui, molla di là, a un bel momento si sente un rumore risolutivo...

Quando la folla percepisce la notizia della partenza fa dietro front isterica e si butta sui sedili (il rapporto è, di norma, uno seduto e tre in piedi). Con manovre di sopraffina tecnica pendolare evitiamo di farci soffiare il posto a sedere, di rimetterci qualche stinco, di farci strappare la borsetta e/o altra borsa.

Partiamo, non dopo aver accumulato ulteriore ritardo aspettando quelli che si sono persi scendendo, ancora più appiccicati: per non sbagliarsi, hanno chiuso due carrozze, quelle più piene di fumo. Mentre la transumanza degli sfollati dalle carrozze chiude continua, con la gioia di avere le loro borse e valigie in testa e in faccia, ci avviciniamo alla meta.

Quando arriviamo scopriamo che, in realtà, non è successo nulla. Solo.... abbiamo fatto quasi 30 Km con i freni tirati, quegli stessi che hanno cominciato a fumare per l'attrito.

E domani, nuovo giro in treno. 
Chissà quale nuova entusiasmante avventura ci sarà ad attenderci.

lunedì 14 aprile 2014

Non uguali

Mi pronuncio su un argomento senz'altro controverso, e che non ha soluzioni univoche.
Lo faccio perché stamattina ho letto la notizia di una madre molto battagliera, che minaccia provvedimenti a destra e a manca contro la supposta discriminazione di cui è vittima la figlia disabile.
 
Pare che quest'ultima sia stata invitata a cambiare scuola per sollevare i compagni dalla sua presenza limitante. Questa cosa è davvero brutta, indice di inciviltà e di mancanza di sensibilità.
 
Ma sarebbe interessante arrivare a capire come si sia arrivati a una simile situazione di esasperazione.
Pare, leggendo la notizia, che l'oggetto della contesa siano le gite e l'attività fisica.
 
Come spesso accade, per non offendere il disabile, tutta la classe rinuncia.
Niente gite, niente gare sportive, niente pattinaggio o altro.
 
Questa è anche la mia esperienza di "classe con disabile" alle elementari e alle scuole medie inferiori.
Tutti chiusi in classe a leggere mentre gli altri a giugno giocano in cortile.
Niente gite da nessuna parte, e, spesso, in mancanza di insegnanti di sostegno, programmi svolti al rallentatore.
 
La mia mente ricorda, a distanza di tanti anni, la terribile fatica quotidiana di Elena, costretta da uno stabile vecchio, a trascinarsi dolorosamente su per due piani di scale, sempre ultima, lei con il suo codazzo, due robuste compagne che la trascinavano letteralmente su per le scale di peso e, al termine delle lezioni, la riportavano giù. Ricordo la sua mano, che artigliava il corrimano, e le nocche che sbiancavano tanto forte era la pressione esercitata per sostenersi.
 
Per delicatezza la nostra maestra diceva di essere troppo anziana e di non avere la forza per tener d'occhio noi scatenati mentre giocavamo in cortile.
 
Ma conoscevamo tutti la vera motivazione, lei compresa, obbligata per altro a fare tutto quello che facevano gli altri, con una fatica e un dolore difficile da spiegare.
 
Così pure la mia compagna delle medie, affetta da nanismo e sottoposta a tutta una serie di prove ginniche, tranne i giochi di gruppo.
 
"Sono come noi", dicono i buonisti dell'handicap.
 
Non è vero, dico io, dopo aver assistito a scene di una crudeltà mostruosa, di una poveretta costretta a lanciare una palla medica "Brava, hai fatto 3 cm più di sei mesi fa!" e in totale erano 10.
 
Ma abbiate pietà, e anche il coraggio di dire: " Mia figlia, mio figlio non ce la fanno, non ci arrivano, non possono, voi andate pure, fate pure, noi troviamo qualcosa di diverso adatto a noi".
 
Così per il lavoro: assumere un disabile costa meno. Peccato che lo si voglia perfettamente... abile. E gli si affidano mansioni di peso, responsabilità e comportanti notevole impegno. In una parola, mansioni esageratamente onerose, soprattutto nel privato.
 
Ho esempi qui, dove lavoro.
Il risultato è che il lavoro non svolto o mal svolto ricade sui colleghi, generando astio e fastidio, ove non malanimo. Insomma, una bella vita d'inferno per tutti.
 
Non ho soluzioni, perché non ce n'è una, ma ce ne sono di possibili solo caso per caso.
 
Tuttavia, ci vorrebbe un po' di sana onestà.
Un handicap è una condizione limitante e come tale deve essere gestita.
 
Smettete di dire che tutti possono fare tutto. Non è così.
E vale per tutti.
 
Fate appello, sempre, a un po' di compassione.
Perché talvolta è il buonismo a tutti i costi a essere più crudele della patologia.
 
 
 
 
 
 
Il corso di scrittura è terminato da soli due giorni, intorno al tavolino di un bar, affogato in un Crodino.
 
Più che un corso è stato per me un'ancora di salvezza, dall'effetto benefico di una seduta psicoanalitica.

Oggi, tornata alle quotidiane incombenze, mi sento orfana, un po' persa e un po' depressa.

sabato 12 aprile 2014

Il salone del mobile, un piccolo assaggio di Expo 2015

Una volta l'anno, in primavera, Milano si popola di folkloristici personaggi che animano il sottobosco del mondo del design, arte in cui l'Italia eccelle, e su cui una città che vuole essere all'avanguardia come Milano punta.
 
Tutti voi conoscete o almeno avete sentito parlare del Salone del mobile, che si tiene ora nel nuovo polo fieristico di Rho. Lì ci sono le esposizioni ufficiali, mentre l'intera città si anima, in tutte le sue parti, di "eventi".
 
Cos'è un evento? Sotto questo nome si cela una pluralità incredibile di cose, tra cui alcune molto belle, come mostre, concerti, installazioni, aperitivi, vernissage, e molte altre la cui attinenza con la creatività e l'arte sono certamente dubbie.
 
Eccovi la cronaca del mio giovedì.
 
Fa molto caldo quando esco dall'ufficio. Grazie all'ora legale il sole è ancora alto, e quasi mi dispiace scendere in metropolitana e negarmi quei pochi brandelli di luce a cui può aspirare il povero impiegato, murato vivo nel suo open space per 9 ore.
 
Ci sono almeno il quadruplo delle persone in circolazione in questa stazioncina di periferia, cosa che mi dà molto da pensare. E non appartengono certo alla "specie pendolare".
 
 
Li vedi che emergono nei sobborghi di Milano e si guardano intorno stupiti, a tratti ammirati. L'occhio incerto tenta di immagazzinare quante più informazioni riesce a trovare. Mi domando quali: siamo in un posto ad elevato tasso di squallore, in cui anche il negozio cinese in piazza ha dovuto chiudere per mancanza di affari.
 
Si fermano un attimo, a bocca socchiusa, e guardano rapiti lo spettacolo che si offre loro: una serie di venditori abusivi che, invece della solita bigiotteria a 1 euro vendono souvenir del Duomo in plastica trasparente rigorosamente made in China.
 
Sì signori stranieri, è sempre Italia, ma non siamo a Pienza e neppure nel Gargano, questo è chiaro. Potete smettere di sentirvi in dovere di ammirare tutto quello che trovate per strada.
 
Si bloccano di colpo e tu, che sei dietro, a momenti ci rotoli addosso. Ti fermi e li scansi, ma al decimo che si guarda intorno con aria da cerebroleso inizi a infastidirti perché il tuo treno non aspetta.
 
Il mio viaggio in metropolitana dura almeno mezz'ora.
Questo in condizioni normali.
 
Stavolta pare anticipare la via crucis del prossimo venerdì.
Non devo nemmeno fare la fatica di salire in Centrale: vengo trasportata dalla folla che, come durante la migrazione dei salmoni in Scozia, tende verso Porta Genova, la stazione in cui io, ogni giorno, scendo. Stipata come un'acciuga, eccomi intenta a mantenermi in equilibrio sui tacchi in mezzo a una folla quanto mai stravagante.
 
Li guardo bene: potrebbero essere la risposta italiana (renziana?) al Carnevale di Rio...
Capisco che, per farsi notare in un ambiente che spesso confonde la stravaganza con la creatività, è indispensabile un abbigliamento particolare.
 
Ma qualcuno lo dica a tutti questi ometti hypster che la caviglietta nuda e pelosa esibita con il pantalone risvoltato è meno sexy del gambaletto di filanca 20 denari color camoscio.
 
Ne ho uno davanti, appiccicato: dall'alto dei miei 10/11 cm di tacco me lo guardo in prospettiva aerea, mentre cerco di evitare che la folla mi strappi via la borsetta del pranzo (il mio tocco chic, dico con ironia).
E' un omettino giovane e incolore, nonostante la giacca blu elettrico, una canottiera a rete nera, i pantaloni arancio rivoltati e della improbabili scarpe eleganti marroni senza calze. Non riesco neppure a capirne la nazionalità, e questo mi inquieta. Mi fissa, mi soppesa (sono pesante....) mi valuta e ammicca. Ecco, al termine di una giornata pesante non poteva esserci che un incontro deprimente, lo sapevo.
 
Dopo un viaggio terribile, in cui la ressa sul vagone era molto simile a quella che invade i supermercati in occasione del Black Friday, vengo letteralmente espulsa dal vagone a Porta Genova, trascinata dalla folla che si riversa in zona via Tortona.
In mezzo a questa variopinta umanità, noi pendolari, dall'aria stravolta e con lo sguardo scuro.
Stanchi morti e spintonati da una umanità variegata che va a divertirsi.
 
Portandosi di tutto, per altro, valigioni, trolley enormi, tubi da disegno e chi più ne ha più ne metta.
 
Conquistata la luce, una volta sul treno stramazzo sul sedile.
Una musica pulsante ci avvolge, volume da discoteca e tipo da discoteca.
 
Il parcheggio della stazione è invaso da una folla di ragazzi che alle sei di sera è ubriaca fradicia grazie al camion di Heineken, lì parcheggiato da tempo a giudicare dai fusti vuoti di birra che lo attorniano. Insomma, l'evento di punta del Salone del mobile, no?
 
La mattina successiva, scesi, dal treno, ci troviamo a camminare su un letto di lattine e bicchieri vuoti, degna conclusione della serata culturale.
 
Sono atterrita al pensiero che l'assoluta scarsità di mezzi pubblici predisposti per l'Expo trasformi la città e la mia vita in un delirio permanente per un anno e non solo per una settimana.
Se quella appena passata è un assaggio del caos che verrà, io prego solo che introducano per legge il telelavoro.
 
Altrimenti schiatto...







sabato 5 aprile 2014

Bisogno di serenità

L'acqua spumeggiante dell'idromassaggio mi accarezza lieve, nascondendomi alla vista il resto del mio corpo, avvolto dal getto dell'acqua termale, opaca per la salsedine.

Sono immersa da un po' di tempo in questo caldo abbraccio fluido, mentre, oltre le vetrate, splende una bellissima giornata primaverile.

Ci sono ancora poche persone nello stabilimento termale, in questo sabato splendente dell'Oltrepo' pavese, e una discreta calma regna nella stanza.

Le mie mani appaiono e scompaiono sotto l'acqua. Le osservo assorta, e intanto penso alla sorpresa di essermi trovata così trascurata, ore prima, mentre mi cambiavo nello spogliatoio.

Non ho trovato tempo per Sara, la mia estetista, da settimane.
E non solo per lei non ho trovato tempo.
Non ho trovato tempo per leggere, per scrivere, anche qui, per vedere un film, per fare una telefonata, per vedere persone, per fare commissioni. E nemmeno per dormire abbastanza.

Perché ho lavorato, lavorato, lavorato e lavorato. Sono affogata nel lavoro. Ne ho talmente tanto da sognarlo anche di notte.
Riscontro e apprezzamento, zero.
Anzi.

Mi sento travolta dalle cose brutte, dalla fretta e dall'approssimazione.
Non mi basta solo una vacanza, mi ci vuole una fuga.

Ho bisogno, in questo momento, di cose belle, buone e tranquille.
Ho bisogno di serenità.

In una parola, ho bisogno di cose che mi facciano stare bene.
Di cose semplici con persone che mi apprezzano.