martedì 5 novembre 2013

Via del deserto dei tartari

Solo l'autunno può sorprendere così, con delle giornate spumeggianti, uscite dal nulla, emerse come per incanto dal grigiore caliginoso dell'inverno incombente.
E così accade che dalle nuvole gonfie di tristezza di un sabato mattina di inizio novembre emerga un raggio di sole, tiepido e chiaro. Questo raggio speranzoso spazza via le nuvole in un istante.
Si posa sul selciato, scivola tra i cubetti di porfido allineati con cura, si stende sulle lastre di marmo del marciapiede. Costeggia la via tingendosi sulle pareti a volte scrostate dei palazzi lasciati andare, il cui tempo dei fasti è passato, indugiando sulle facciate di quelli appena rimessi a nuovo, soffermandosi sulla chiesetta di San Giorgio e compiacendosi del suo ordine assoluto.
Una veloce sosta la dedica anche al Liceo, doverosa e quasi rassegnata.
 
Sono le undici del mattino e io sono in via Cairoli, a Vigevano. Una delle vie centrali, appena dietro il Castello. C'è un silenzio di tomba. Non passa un'auto, non c'è un pedone, né una bicicletta.
 
Pende un pochino quel pezzo di scotch che tiene insieme dei fogli di carta bianca, che mascherano la vetrina del negozio. Una distesa di carta bianca impacchetta la via. Di alcuni ci sono ancora le insegne, di altri non c'è nulla più, se non questa mortale carta bianca.
Dovrebbe preservare il decoro ambientale, il non vedere i negozi drammaticamente vuoti, con il loro carico di fili tagliati, gli ultimi brandelli di carta, filo e stoffa a terra, le lampadine mancanti, le ombre disegnate dai mobili che non ci sono più.
 
In questa via, non c'è più un negozio.
Neppure più uno. Sono tutti chiusi.
Solo una panetteria resiste stoicamente: vive grazie alla scuola, scommetto.
Sembra essersi abbattuto un uragano.
 
L'isola pedonale ha ucciso il malato grave, credo.
Insieme alla crisi, all'esplosione delle tasse, ai parcheggi mancanti.
 
Mia madre racconta dei negozi che c'erano, dopo un primo momento di smarrimento, dicendo che, sì, venivano anche qui a fare un giro il sabato.
Io non ricordo nulla. Purtroppo, o per fortuna, non ricordo ormai più un periodo di "normale ottimismo" nella mia vita italiana.
 
In questo Paese dove nessuno mai è colpevole né responsabile, ma tutti si dipingono vittime, mio padre ha passato l'intera esistenza (breve) lottando contro lo spettro della disoccupazione e io sono cresciuta respirando insicurezza e recessione. E oggi sono qui in mezzo al nulla. Perché questo è, il nulla di questa strada vuota e la desolazione immensa di questi treni carri bestiami che portano al macello milanese la plebaglia lavoratrice, che qui non ha più uno sbocco.
 
Milioni di parole vere, finte, false, stupide e intelligenti sono state spese sulla crisi.
Oh, la crisi mica è caduta come la peste su questa sciagurata nazione.
Si sapeva, e a nessuno è importato di sacrificare una o più generazioni, la nostra, per il proprio immediato tornaconto.
 
E adesso questo c'è, il deserto.
 
E mi facciano il piacere, i soliti populisti da strapazzo che si sono fatti eleggere raccontando favole e dipingendosi immacolati, almeno di guadagnarsi lo stipendio in Parlamento.
Altro che sfasciare tutto, ... (starebbe per un bell'insulto), è già tutto sfasciato....
 
 
 
 
 
 

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