Quando, con esattezza, mi sono resa conto che, senza eccezione alcuna, tutti e sei siamo, ognuno a modo nostro, ben oltre il limite di sopportazione?
Quando, una notte qualsiasi tra domenica e lunedì mi sono svegliata di soprassalto, madida di sudore, con il cuore che batteva a mille. Brandelli di sogno mi accompagnavano alla coscienza, intanto mi trovavo pian piano riportata alla realtà in un letto che denunciava l'agitazione del sonno attraverso le sue coperte scomposte.
Nel sogno stavo elencando, tra me e me, tutti gli elementi che potevano giustificare di fronte a me stessa, la mia assenza al lavoro, mal di gola, un terribile mal di schiena, mal di testa, attacco di ansia... tutte cose che avevo in effetti, in quel momento.
E così ogni notte, per settimane e settimane di fila.
Non è necessario chiedere ai colleghi. Siamo tutti esauriti, c'è chi lo dà a vedere di più e chi di meno, chi riesce a controllarsi di più e chi meno. A che prezzo, poi, lo sappiamo, e nemmeno troppo bene, solo noi.
Siamo tutti nervosi, tutti, sempre, di cattivo umore.
Intrattabili, e quanto è peggio, intrattabili verso noi stessi.
A vederci da fuori regna un silenzio spettrale. Anche in piena estate l'aria è gelida. Ognuno con lo sguardo fisso sullo schermo del suo pc, ognuno impegnato a fare i conti con la propria insofferenza.
L'atmosfera è pesante, quasi densa. Si respira il fastidio e ormai l'intolleranza a trovarsi chiusi lì dentro è palpabile. Il tempo scorre lento, troppo lento. I minuti paiono eterni, come se un orologiaio crudele avesse alterato il normale corso del tempo.
Mi sento scalpitare già nel primo pomeriggio. Non è neppure più il lavoro in sé, o forse anche quello.
Il peso, sento fisicamente il peso di tutta quella montagna di lavoro inutile che svolgo.
Mail, quintali di mail, fasci di quesiti, valanghe di osservazioni, di richieste di chiarimenti...
Il tempo passa, la pressione aumenta: avessimo saputo che saremmo finiti a occuparci di questioni così marginali, penso, non avremmo nemmeno varcato la soglia di questo posto. Giunti davanti alla porta saremmo scappati a gambe levate.
E ci saremmo salvati, davvero, la vita. Avremmo avuto altre opportunità, che, ora come ora, latitano.
Tempo fa una ex collega ha detto che questo è un buco nero. Ti accoglie, ti attrae e... ti succhia tutta la vita e la competenza che avevi.
In questo momento siamo tutti delle scatolette vuote, senza competenza alcuna da proporre al mercato del lavoro, troppo vecchi e troppo giovani per tutto. Siamo senza professionalità, anche se di conoscenze ne abbiamo e anche di volontà.
Tutti incatenati alla scrivania e vessati dal solito noto che ha il potere di renderci infernale la vita.
La gestione di questo pazzo e dei mostriciattoli che ha saputo creare in tanti anni di vessazioni mi porta via buona parte delle energie. E poi sono ossessionata dalle mail: quintali di mail, valanghe di mail, strati di mail, sono arrivata ad odiarle. E a odiare quelli che li spediscono.
E' come osservare l'acqua immobile di uno stagno.
Sopra è tutto calmo, ma chi la conosce bene può vedere le forti correnti che la animano nel sottostante.
E l'attesa riguarda chi sbotterà per primo. Perché prima o poi succederà. La sensazione è quella di essere seduti su una pentola a pressione, senza valvola.
Mi preoccupa non solo come comincerà, ma anche come andrà a finire.
Solo, non vorrei essere io quella che comincia, ecco.
E neppure quella che finisce, perché, e credo di non sbagliarmi, non finirà bene.